Articoli

Microbiota e tumore al colon

Abbiamo visto come il microbiota intestinale sia implicato nell’insorgenza, nell’esacerbazione o, al contrario, nella remissione dei sintomi di diverse patologie, sia intestinali che sistemiche. Detto questo, una domanda sorge spontanea: il microbiota potrebbe avere un ruolo nell’insorgenza di una delle patologie più gravi che colpiscono il tessuto intestinale, ossia il tumore al colon-retto?

Questo tipo di tumore è il secondo in Italia tra quelli più frequentemente diagnosticati (il primo è il tumore al seno) e, purtroppo, sempre il secondo come causa di morte (il primo è quello al polmone). E’ più frequente negli uomini che nelle donne (1 caso su 13 rispetto ad 1 su 21) ma negli ultimi anni si sta fortunatamente assistendo ad una riduzione dei casi per entrambi i sessi.

Dato l’impatto di questa neoplasia, le ricerche su di essa e sull’ambiente che la circonda sono molto approfondite: ne deriva che anche l’associazione microbiota-tumore al colon sia molto studiata.

Causa o effetto?

Come per le altre patologie che dipendono da un mix di genetica, ambiente, fattori endogeni e microbiota, capire se un microbiota sbilanciato sia una causa o una conseguenza della malattia non è per niente facile. Infatti i meccanismi con cui un microbiota sbilanciato potrebbe influire sull’insorgenza del tumore al colon sono diversi anche se non ancora del tutto chiariti. Una prima attività pro-oncogenica riguarderebbe i metaboliti prodotti dal microbiota: molecole infiammatorie, ossidanti o tossiche per le cellule che potrebbero danneggiarsi e mutare. In secondo luogo un microbiota patogenico potrebbe legarsi alle cellule, invadere il tessuto e traslocare fuori dal lume intestinale. In questa area potrebbe attivare il sistema immunitario che a sua volta danneggerebbe il tessuto e così via. Ma tutti i batteri patogeni e tutte le disbiosi possono aumentare il rischio di cancro al colon?

Alcuni dei colpevoli sono noti

All’interno di un microbiota sbilanciato, alcuni indiziati batterici sono particolarmente noti ai ricercatori. Tra questi il famoso Fusobacterium nucleatum è il batterio più comunemente presente in casi di tumore al colon e pertanto ormai è considerato quasi un marcatore di patologia. È un batterio pro-infiammatorio e la sua presenza (associata ad altri fattori di rischio genetici) aiuta a far proliferare le cellule neoplastiche e a inibire una difesa immunitaria anti tumorale. Non è comunque l’unico. Le Peptostreptococcaceae, E. coli tossigenico, persino batteri orali come la Porphyromonas gingivalis sono spesso correlati con l’insorgenza del tumore al colon.

Stile di vita e alimentazione prima difesa

Possedere tali batteri nel proprio microbiota intestinale tuttavia non implica che la patologia insorga necessariamente. Sono un fattore di rischio ma, come ben sappiamo, un microbiota disbiotico può essere modulato tramite uno stile di vita attivo e un’alimentazione sana. Infatti, diversi studi hanno dimostrato che uno stile di vita poco attivo e un indice di massa corporea alto sono altamente correlati all’insorgenza del tumore al colon. Tali fattori di rischio tendono a promuovere uno stato infiammatorio e ad impoverire il microbiota di batteri produttori dei benefici acidi grassi a corta catena. Al contrario uno stile di vita attivo, un basso indice di massa grassa e sicuramente un’alimentazione bilanciata, ricca in fibre (frutta, verdura, grani) e grassi buoni (pesce, grassi vegetali) promuovono la crescita di batteri benefici e proteggono dall’insorgenza del tumore al colon (come di molti altri tumori).

Non possiamo cambiare i nostri geni ma possiamo aiutarli con diverse strategie, a partire dalle scelte che facciamo a tavola e di conseguenza da come trattiamo il nostro piccolo grande tesoro batterico che abbiamo in pancia.

La ricerca ci sta aiutando a capire come fare. Aiutiamo la ricerca.

Alla prossima!

Eleonora Sattin, PhD

P.S.

Visitate l’iniziativa del collega bioinformatico Dr. Benvenuto per sostenere la raccolta fondi AIRC al seguente link.


https://www.epicentro.iss.it/tumori/pdf/NC2019-operatori-web.pdf

Dominik Ternes, Jessica Karta, Mina Tsenkova, Paul Wilmes, Serge Haan, Elisabeth Letellier.
Microbiome in Colorectal Cancer: How to Get from Meta-omics to Mechanism? (2020) Trends in Microbiology DOI:https://doi.org/10.1016/j.tim.2020.01.001

Song M, Chan AT, Sun J. Influence of the Gut Microbiome, Diet, and Environment on Risk of Colorectal Cancer. Gastroenterology. 2020 Jan;158(2):322-340. doi: 10.1053/j.gastro.2019.06.048. Epub 2019 Oct 3. PMID: 31586566; PMCID: PMC6957737.

De Almeida, C. V., de Camargo, M. R., Russo, E., & Amedei, A. (2019). Role of diet and gut microbiota on colorectal cancer immunomodulation. World journal of gastroenterology, 25(2), 151–162. https://doi.org/10.3748/wjg.v25.i2.151

Sánchez-Alcoholado, L., Ramos-Molina, B., Otero, A., Laborda-Illanes, A., Ordóñez, R., Medina, J. A., Gómez-Millán, J., & Queipo-Ortuño, M. I. (2020). The Role of the Gut Microbiome in Colorectal Cancer Development and Therapy Response. Cancers, 12(6), 1406. https://doi.org/10.3390/cancers12061406

 

Psoriasi: lo squilibrio dell’asse intestino-pelle

“Puliti dentro, belli fuori.” recita una nota pubblicità. Probabilmente gli autori di questo slogan non potevano immaginare che la scienza del microbiota avrebbe dato loro ragione, ovviamente mutatis mutandis.

C’è un forte legame tra dentro e fuori

Il microbiota intestinale non è un tessuto a sé stante che controlla solo la funzionalità di se stesso e degli organi in cui vive ma influenza anche altre parti del corpo umano. Infatti lo abbiamo visto interagire con il cervello (asse intestino-cervello), oppure intervenire in patologie sistemiche come il diabete: perché non potrebbe influire anche su uno dei tessuti più visibili del nostro corpo ovvero la pelle?

Eppure sembrerebbero così distanti.. In realtà non è così: il microbiota intestinale produce svariate molecole segnale che intervengono ad ampio spettro sul benessere della pelle. Infatti i nostri abitanti intestinali regolano, tra le altre cose, anche il sistema immunitario sottocutaneo, la proliferazione delle cellule della pelle (i cheratinociti), e la rigenerazione cellulare e tissutale ad esempio dopo una ferita. Pertanto, in un certo senso, se siamo “belli dentro” (= in eubiosi o equilibrio intestinale) molto probabilmente siamo anche “belli fuori” (= in omeostasi tissutale, la pelle funziona correttamente). In altre parole siamo di fronte all’equilibrio dell’asse intestino-pelle.

E se l’equilibrio si rompe?

Molte patologie sistemiche o autoimmuni presentano uno stato di squilibrio intestinale che si auto alimenta in un circolo vizioso di disbiosi, infiammazione e distruzione della barriera intestinale in cui causa ed effetto sono spesso sovrapposte. E’ la barriera intestinale danneggiata che induce infiammazione e disbiosi o viceversa? Un po’ entrambe. Ad ogni modo tale condizione favorisce il passaggio di molecole infiammatorie batteriche nel sangue che, nel suo percorso, arriva anche al derma.

Nelle persone predisposte, questo accumulo di segnali “intestinali” induce le cellule immunitarie sottocutanee a produrre molecole infiammatorie che attivano i cheratinociti a proliferare esageratamente. Questo causa ispessimento della pelle che può rompersi per motivi meccanici. Il microbiota della pelle a questo punto diventa fondamentale perché la sua composizione può influenzare positivamente o negativamente la guarigione della lesione. 

La psoriasi è una patologia da “esposoma”

Quanto descritto sopra è il tipico scenario che accade nella psoriasi, una dermatosi cronica infiammatoria mediata dal sistema immunitario che dipende da moltissimi fattori interni ed esterni (esposoma). Genetica, stile di vita, alcuni medicinali, obesità, fumo, infezioni, stress, sembrano essere fortemente correlati all’insorgenza della patologia. Si presenta con chiazze di pelle ispessita e soggetta ad una forte desquamazione, fino a provocare lesioni cutanee.

In molti casi la psoriasi è diagnosticata insieme ad altre patologie che sono anch’esse collegate con una modulazione sbilanciata del sistema immunitario, un livello esagerato di infiammazione sistemica e disbiosi con danno alla barriera intestinale. Infatti ad esempio il 7%-11% di persone con IBD ha diagnosi di psoriasi e spesso obesità, ipertensione o diabete di tipo 2 dimostrano comorbidità con la psoriasi.

In tutte queste patologie il tipo di disbiosi è un po’ diverso e spesso non sempre chiaro tra i diversi studi, tuttavia ciò che è noto è in tali patologie alcuni batteri probiotici e benefici tendono a diminuire. Uno su tutti il Faecalibacterium prausnitzii, che produce molecole antinfiammatorie e regolatorie per il sistema immunitario, è tipicamente impoverito.

Curare l’intestino per curare la pelle?

Antibiotici, probiotici, trapianto fecale sono in test per migliorare la patologia utilizzando come target l’intestino. Ad esempio, diversi studi hanno testato l’efficacia di alcuni probiotici sul riequilibrio dell’asse intestino-pelle, come il Bifidobacterium infantis 35,624 e il Lactobacillus pentosus GMNL-77 che hanno ridotto i livelli di infiammazione sistemica e attenuato i sintomi della psoriasi. Nondimeno il trapianto fecale, come per l’IBD, è una strategia che sembra molto promettente per abbassare l’infiammazione sistemica.

E che dire dell’alimentazione? Sappiamo che è uno degli strumenti più comuni a disposizione per contrastare la disbiosi e l’infiammazione. Non a caso, tra le altre, la dieta mediterranea ricca in antiossidanti, omega-3, vitamine ed oligoelementi è un ottimo coadiuvante nella terapia di una patologia infiammatoria sistemica come la psoriasi.

Forse un po’ lo potevamo immaginare?! 😉

Alla prossima!

Eleonora Sattin, PhD


Atiya Rungjang et al. (2020). Skin and Gut Microbiota in Psoriasis: A Systematic Review

Giovanni Damiani et al. (2020). Gut microbiota and nutrient interactions with skin in psoriasis: A comprehensive review of animal and human studies. World J Clin Cases

Mariusz Sikora et al (2020). Gut Microbiome in Psoriasis: An Updated Review. Pathogens

Dalal I. Alesa et al. (2019). The role of gut microbiome in the pathogenesis of psoriasis and the therapeutic effects of probiotics. J Family Med Prim Care.

Hsu et al. (2020). Role of skin and gut microbiota in the pathogenesis of psoriasis, an inflammatory skin disease. Medicine in Microecology

Digiuno intermittente e microbiota

Le festività natalizie si avvicinano e, si sa, le nostre tavole tendono a riempirsi di cibo più del solito.

Così noi abbiamo deciso di parlarvi di digiuno intermittente e della sua relazione con il microbiota intestinale.

Schemi di digiuno intermittente

Per digiuno intermittente si intende la pratica di alternare periodi di normale assunzione di cibo a periodi di digiuno, di durata variabile, in base allo schema dietetico seguito.

Un protocollo tipico di digiuno intermittente prevede un digiuno per 12 o 16 ore al giorno e il consumo dei pasti nelle ore restanti, eseguito in genere su un massimo di 2 giorni alla settimana.

Altri schemi prevedono, invece, apporti calorici imitanti il digiuno (circa 500-600 kcal) durante 2 giorni in una settimana, mentre i restanti 5 si mangia normalmente.

Una pratica alternativa, infine, prevede il digiuno per 24 ore consecutive, uno o due giorni alla settimana.

Relazione tra digiuno e microbiota

Recenti studi hanno dimostrato come il digiuno intermittente sia in grado di apportare diversi benefici alla salute, in termini di miglioramento dell’obesità, dell’insulino resistenza e dei livelli di colesterolo LDL.

Le esatte dinamiche rimangono ancora da definire, ma ci sono evidenze che suggeriscono un possibile ruolo del microbiota intestinale come mediatore di tali effetti sul metabolismo.

In particolare, è emerso che il digiuno intermittente è in grado di influenzare la composizione del microbiota intestinale, determinando l’aumento della specie Akkermansia muciniphila (nota per i suoi effetti benefici sul metabolismo dell’ospite) e la riduzione di Rikenellaceae, Ruminococcaceae e del genere Alistipes. A ciò si aggiunge un aumento dei livelli plasmatici di alcuni prodotti della fermentazione microbica, in particolare acetato e lattato.

L’ipotesi del browning

L’ipotesi avanzata è che tali alterazioni possano promuovere un fenomeno chiamato browning, in cui le cellule del tessuto adiposo bianco, deputate all’immagazzinamento energetico, sono “riprogrammate” per assumere caratteristiche simili alle cellule del tessuto adiposo bruno, coinvolte nella termoregolazione.

Queste ultime sono ricche in mitocondri e costituiscono una sorta di grasso “brucia grassi”, in quanto non immagazzinano energia, ma la disperdono sotto forma di calore.

Un’ulteriore evidenza emersa da questi studi è che la risposta del microbiota intestinale al digiuno varia in base alla durata e gli effetti maggiori sono stati osservati con un intervallo di 16 ore tra un pasto e l’altro.

Tuttavia, le alterazioni promosse dal digiuno sul microbiota sono transitorie, in quanto la ripresa della normale alimentazione ne induce la perdita.

Sono necessari, quindi, ulteriori studi al fine di comprendere meglio i meccanismi e potenziare i benefici di questa pratica a lungo termine.

Ricordiamo che la pratica del digiuno intermittente potrebbe non essere raccomandata per tutti i soggetti e che ogni intervento nutrizionale va sempre personalizzato, con la guida di un professionista.

Alla prossima!

Ilena Li Mura

Biologa Nutrizionista


Reference:

  • Fasting the Microbiota to Improve Metabolism? Joel T. Haas and Bart Staels, 2017.
  • Intermittent fasting and gut microbiota. Karakan T. 2019
  • The effects of daily fasting hours on shaping gut microbiota in mice. Li et al, 2020.

Microbiota e Diabete

In vista della giornata mondiale del diabete, il 14 novembre 2020, noi di Microbioma Italiano abbiamo voluto fare un piccolo excursus sul forte legame tra microbiota intestinale e questa patologia sempre più comune. Un legame da cui è possibile trarre molti insegnamenti e benefici.

Il diabete è una patologia che può insorgere nei bambini e negli adolescenti per motivi genetici, virali o di stress (si parla allora di tipo 1). Tuttavia nel 90% dei casi può emergere anche in un soggetto adulto a causa di uno stile di vita sedentario, obesità, presenza di grasso viscerale, dieta povera di fibre e ricca in grassi saturi e zuccheri. La predisposizione genetica deve essere presente ma abitudini sbagliate sono il trigger principale del diabete di tipo 2.

Cosa vuol dire diabete?

Essere diabetici implica non essere in grado di gestire l’assunzione di zuccheri semplici o complessi. Questo accade perché l’insulina, l’ormone deputato alla gestione del metabolismo del glucosio, è carente oppure le cellule e i tessuti su cui agisce ne sono insensibili (insulino-resistenza). Solitamente nel diabete di tipo 2 c’è una combinazione di entrambe le cause. In queste condizioni, si ha un accumulo di glucosio nel sangue (iperglicemia) che, a cascata, provoca una diminuzione dell’assorbimento del glucosio nei muscoli e un aumento degli acidi grassi in circolo. Questi ultimi sembrano essere collegati all’aumento della secrezione di molecole infiammatorie e al danno a molteplici organi e tessuti. Di fatto nel diabete l’infiammazione è la causa principale delle complicazioni che possono insorgere nel lungo periodo, come patologie cardiovascolari, necrosi tissutale, perdita della vista, insufficienza renale etc. 

Microbiota e diabete

Quando si parla di infiammazione sistemica non si può non parlare di microbiota. Non è un caso se moltissimi studi abbiano rilevato un microbiota caratteristico della patologia diabetica. Il microbiota infatti modula l’infiammazione, interagisce con i nutrienti, influenza la permeabilità intestinale, il metabolismo del glucosio e lipidico, la sensibilità all’insulina e il bilancio energetico del corpo.

Diversi microbi intestinali possono promuovere un’infiammazione di basso grado o endotossiemia, tipica del diabete di tipo 2, e possono scalzare prepotentemente i batteri benefici. Batteri come Bifidobacterium, Bacteroides, Faecalibacterium, Akkermansia e Roseburia sono normalmente sottorappresentati nel microbiota dei diabetici mentre Ruminococcus, Fusobacterium e Blautia tendono ad aumentare. Il primo gruppo di batteri è normalmente considerato antinfiammatorio, produttore di butirrato e promotore di una bassa permeabilità intestinale. Inoltre, può avere attività inibitoria nei confronti di enzimi che degradano i carboidrati complessi, riducendo l’iperglicemia postprandiale. Al contrario, il secondo gruppo tende a favorire la produzione di molecole infiammatorie e a promuovere uno stato di alterata permeabilità intestinale.

Microbiota e farmaci 

Il microbiota residente può positivamente o negativamente influenzare l’attività e l’efficacia  dei farmaci utilizzati per curare il diabete. Non solo, alcuni batteri probiotici sono in sperimentazione per favorire la modifica del microbiota in senso “positivo”, per abbassare il grado di infiammazione sistemica e ristabilire il metabolismo normale del glucosio. B. lactis, B. animalis, L. plantarum, L. sakei, L. rhamnosus, sono tutti probiotici che hanno dimostrato diverse abilità nel management della patologia.

Prevenire è meglio

Ad ogni modo, sapendo che il diabete di tipo 2 è una patologia che dipende molto dalle nostre scelte, è certamente fondamentale prendere le decisioni giuste per quanto riguarda stile di vita e alimentazione. Eliminare la sedentarietà ed abbracciare uno stile di vita attivo sfavoriscono l’insulino-resistenza. Assumere alimenti ricchi di fibre e abbandonare la dieta tipicamente occidentale, che sta provocando un incremento di patologie come il diabete, sono sicuramente scelte positive per una saggia prevenzione. 

Anche monitorare il microbiota può essere uno strumento utile per verificare lo stato di disbiosi ed infiammazione sistemica. L’analisi Microbioma Italiano EVO può infatti in tal senso supportare lo specialista, anche nella definizione di una strategia nutrizionale ed integrativa ad hoc

Alla prossima!

Eleonora Sattin, PhD


Gurung et al (2020) Role of gut microbiota in type 2 diabetes pathophysiology, The Lancet

Wanping Aw and Shinji Fukuda (2018) Understanding the role of the gut ecosystem in diabetes mellitus. J Diabetes Investig

https://www.epicentro.iss.it/diabete/

Giornata Mondiale della Pasta – 25 ottobre 2020

Il 25 ottobre si celebrerà in tutto il mondo il World Pasta Day, un evento internazionale dedicato alla pasta, ideato dall’Unione Italiana Food e da IPO (International Pasta Organization).

Microbioma Italiano non poteva non dare il proprio contributo, in termini di divulgazione scientifica, a questa kermesse, dal sapore tutto Italiano.

La pasta e la dieta mediterranea.

Non c’è piatto che più della pasta rappresenti l’Italia nel mondo.

Noi italiani, si sa, siamo amanti, intenditori e cultori della pasta, in tutte le salse, è proprio il caso dirlo.

Tanto amata, quanto demonizzata, la pasta è sicuramente un alimento molto discusso.

Negli ultimi anni è stata spesso messa al bando come causa di ogni male, seguendo l’onda della diffusione di regimi alimentari “alternativi”, rispetto alla classica dieta mediterranea: dalle diete low carb (sia chetogeniche che non) alle diete senza glutine.

Ma è davvero così “pericolosa”?

La pasta è senza dubbio un alimento distintivo della dieta mediterranea.

Ricordiamo che l’espressione “dieta mediterranea” è stata coniata dal noto biologo e fisiologo statunitense Ancel Keys, alla fine degli anni ‘50, in seguito ai suoi studi sull’epidemiologia delle malattie cardiovascolari.

I dati raccolti da Keys mostravano come tra le popolazioni del bacino del Mediterraneo, che si cibavano in prevalenza di pasta e altri cereali integrali, pesce, legumi, frutta e verdura e utilizzavano olio d’oliva come condimento, la percentuale di mortalità per cardiopatia ischemica era significativamente più bassa rispetto alle popolazioni del nord Europa, il cui regime alimentare includeva un’alta percentuale di grassi saturi (burro, strutto, carne rossa).

Se osserviamo la piramide alimentare mediterranea la pasta trova posto alla base, insieme ad altri cereali, alla frutta e alla verdura.

Insieme, ma non da sola. Questo è il primo importante punto da considerare quando si parla di dieta mediterranea.

Pane, pasta e cereali sono componenti caratterizzanti la dieta mediterranea, ma non sono gli unici.

Legumi, pesce, frutta e verdura, olio extravergine di oliva, sono gli altri alimenti tipici del regime alimentare mediterraneo, che contribuiscono a determinare i noti benefici di questo stile dietetico sulla salute.

Il secondo importante punto è la qualità dei cereali: integrali e non raffinati.

Con l’avvento dell’industrializzazione, i cereali integrali hanno lasciato sempre maggiore spazio a quelli raffinati, più facilmente lavorabili, per la produzione di pane e di altri prodotti da forno.

Rispetto alla versione integrale, un cereale raffinato è impoverito dal punto di vista nutrizionale, in quanto ha perso due importanti parti del seme: la crusca e il germe, preziose fonti di vitamine e sali minerali. A ciò si aggiunge un maggiore impatto dei cereali raffinati sull’innalzamento della glicemia e sulla produzione di insulina.

Infine, va sottolineato che gli studi di Keys sono stati condotti in un periodo storico in cui lo stile di vita era caratterizzato da un’attività lavorativa impegnativa a livello fisico, ad esempio nei campi o a casa. Dopo il boom economico degli anni ‘60, il lavoro fisico pesante ha lasciato sempre più spazio a una tipologia di lavoro differente e una percentuale sempre maggiore di persone si ritrova, oggi, a trascorrere molte ore al giorno seduta a una scrivania.

Cosa significa tutto questo?

  • La dieta mediterranea è prima di tutto uno stile di vita e non una semplice lista di alimenti. Attività fisica, convivialità, stagionalità sono, infatti, alla base della piramide alimentare. Quante volte vi siete ritrovati a mangiare di fretta davanti al vostro computer, in una pausa pranzo sempre più ridotta?
  • La quantità e la qualità dei cereali che consumiamo e l’attività fisica che svolgiamo sono dei fattori da tenere in considerazione nella valutazione dei nostri fabbisogni nutrizionali.
  • I carboidrati, in particolare pane e pasta, non sono la causa di ogni male. Ricordiamo che le linee guida per un’alimentazione bilanciata, in persone sane, prevedono che la metà dell’energia derivi dai carboidrati, in particolare dai carboidrati complessi. La pasta, soprattutto nella sua versione integrale, è un’importante fonte di carboidrati complessi: amido e fibre, queste ultime con un altissimo potenziale prebiotico, ovvero in grado di promuovere la crescita di batteri benefici, come i Bifidobatteri.
  • Oltre alla pasta e ai cereali in generale, non dimentichiamoci di altre importanti fonti di macro e micronutrienti, quali legumi, pesce, verdura e frutta. Avete fatto caso a quante volte consumate questi alimenti nell’arco di una settimana?
  • Glutine o non glutine? La pasta è un’importante fonte di glutine, i celiaci devono sicuramente trovare delle alternative, ma tutti gli altri? Sicuri di doverlo eliminare? Abbiamo parlato di questo argomento in uno dei post del nostro blog.
  • E la pasta la sera? Eresia? Lo sapevi che i carboidrati complessi consumati di sera possono migliorare la qualità del sonno e favorire il rilassamento stimolando la produzione della serotonina?

In conclusione, siamo orgogliosi della nostra tradizione mediterranea, godiamoci un buon piatto di pasta italiana, se possibile in buona compagnia. Anche il nostro microbiota ne sarà felice! Non dimentichiamoci, però, che ogni regime alimentare va personalizzato sulla base delle caratteristiche, esigenze, stili di vita e gusti individuali.

E a te come piace la pasta? A me cacio e pepe!

Alla prossima!

Ilena Li Mura, PhD

Biologa nutrizionista

Intolleranza al lattosio, microbiota e analisi EVO di Microbioma Italiano.

Nell’ultimo articolo del nostro blog abbiamo parlato della relazione tra intolleranza al lattosio e microbiota.

Ma cosa può dirci al riguardo l’analisi EVO di Microbioma Italiano?

Lo vediamo discutendo il case study di una partecipante al progetto Microbioma Italiano.

I sintomi

Come accade spesso in questi casi, anche per la nostra amica i primi sintomi tipici dell’intolleranza al lattosio da ipolattasia (perdita di attività dell’enzima lattasi) si sono manifestati apparentemente all’improvviso, perchè?

Perchè, ricordiamolo, la soglia di tolleranza al lattosio è individuale.

La quantità di lattosio ingerito in grado di indurre sintomi varia mediamente da 12 a 18 grammi al giorno.

Questo significa che quantità basse di lattosio, ad esempio un paio di caffè macchiati con latte, uno yogurt, formaggi stagionati, piccole quantità di formaggi freschi, sono di norma ben tollerate anche da chi malassorbe il lattosio.

Quando la propria soglia di tolleranza viene superata, compaiono i sintomi dell’intolleranza: dolore addominale, gonfiore, flatulenza, a volte diarrea, nausea e vomito.

Questo è esattamento quello che il nostro case study aveva iniziato a notare su se stessa.

Genetica

Anche la genetica ha un ruolo nel determinare l’intolleranza al lattosio.

In circa il 65-75% della popolazione umana, dopo lo svezzamento, l’espressione del gene che codifica per la lattasi viene down-regolata, che significa che il gene viene “spento” e la lattasi non viene più prodotta.

Questa condizione è la più comune.

Tuttavia, alcuni soggetti, più frequentemente in Europa e in alcune popolazioni africane, mediorientali e dell’Asia meridionale, presentano delle particolari varianti genetiche, chiamate polimorfismi, frutto di mutazioni selezionate positivamente nel corso dell’evoluzione. Tali varianti determinano la persistenza della lattasi anche in età adulta. In questi casi, infatti, il gene che codifica l’enzima lattasi non viene “spento” ma continua a essere attivo.

Secondo voi la nostra amica possiede qualcuna di queste varianti genetiche?

La risposta è no. Effettuando un test genetico, infatti, ha scoperto di avere un genotipo che in genetica si definisce wild-type, letteralmente selvatico, cioè la versione di un gene più comune in natura, responsabile dell’ipolattasia in età adulta.

Microbiota

Sarete curiosi di conoscere, a questo punto, la composizione del microbiota intestinale del nostro case study.

Analizziamo alcuni dettagli del report EVO relativo all’analisi del suo microbioma intestinale.

Il grafico a sinistra rappresenta la stima del potenziale fermentativo del microbiota intestinale, rispetto a determinati composti, tra cui il lattosio.

La freccia rossa indica che l’efficienza del microbiota intestinale nella fermentazione del lattosio è in eccesso, determinando una elevata produzione di gas, flatulenza, costipazione, diarrea, distensione a livello della parete intestinale, con conseguente dolore addominale, nei soggetti più sensibili.

In che modo questa informazione può essere utile?

Un microbiota di questo tipo può abbassare la soglia individuale di tolleranza del lattosio, suggerendo di porre una maggiore attenzione all’assunzione contemporanea di alimenti contenenti elevate quantità di lattosio.

D’altra parte, però, ricordiamo che il microbiota è un ecosistema estremamente resiliente, con una elevata capacità di adattarsi in maniera positiva a un determinato ambiente.

Lo vediamo nella tabella a destra.

Il malassorbimento del lattosio ha determinato la selezione di Bifidobatteri, che utilizzano il lattosio nel loro metabolismo e producono una elevata quantità di acidi grassi a catena corta, dalle note proprietà anti-infiammatorie e immunomodulanti.

Take-home message

Cosa ci portiamo a casa?

  • E’ fondamentale ascoltarsi e ascoltare il proprio corpo, ponendo attenzione al cibo di cui ci nutriamo e ai sintomi che lo accompagnano.
  • Se sospettiamo di avere un’intolleranza al lattosio, non dobbiamo necessariamente eliminare del tutto il latte e i derivati, preziose fonti di calcio, ma possiamo provare a capire qual è la nostra soglia di tolleranza individuale.
  • Un microbiota in equilibrio, con una buona rappresentanza di batteri benefici, quali i Bifidobatteri, può contribuire a tenere sotto controllo un’eventuale infiammazione e a produrre composti benefici per l’intestino, anche in situazioni di intolleranza.

Il report EVO di Microbioma Italiano e la guida di un nutrizionista possono rivelarsi molto utili in questi casi.

E tu, sei curioso di scoprire l’effetto del lattosio sul tuo microbiota?

Visita il nostro sito per conoscere come effettuare il test!

Alla prossima!

Ilena Li Mura, PhD

Biologa Nutrizionista


Bibliografia

WGO Practice Guidelines – Diet and the Gut

 

Cercare l’equilibrio nonostante tutto

Resilienza: un termine che in psicologia ci riporta ai concetti di coraggio, forza, resistenza nei confronti delle tempeste della vita. E’ la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici e di riorganizzare positivamente la propria vita. 

In realtà questo vocabolo al di fuori della psicologia è molto usato anche in ambito scientifico. Infatti un qualsiasi sistema può subire delle perturbazioni ed adattarsi ad esse, trovando un nuovo equilibrio stabile. In biologia resilienza esprime la capacità della materia vivente ad auto ripararsi.

Ma in fondo che sia psicologia o scienza, il concetto non è sempre lo stesso?! Cercare l’equilibrio nonostante tutto.

Resilienza: un equilibrio dinamico

Avete presente quei porta dolci a più piani tipici dei matrimoni? Ecco, immaginate una pallina blu sul ripiano più alto. Dato che il ripiano ha i bordi un po’ curvi, la pallina può muoversi liberamente senza mai cadere, spinta da una folata d’aria oppure dal dito di un bambino che ci gioca.

Ma… se il bambino ci mettesse troppa energia e le facesse superare il bordo del ripiano, che succederebbe? La pallina cadrebbe nel livello sottostante! A quel punto non basterebbe più un dito per riportare la pallina nel ripiano più alto: il bambino dovrebbe sforzarsi molto per riportare le cose com’erano in origine.

Il microbiota cerca sempre la stabilità

La nostra pallina è come il microbiota. Infatti il microbiota è un sistema che giornalmente, ora per ora, subisce delle continue modifiche a cui deve resistere oppure adattarsi. In altre parole può muoversi sullo stesso ripiano oppure può essere costretto a cadere sul ripiano sottostante.

Normalmente il ripiano più alto della tortiera è considerato il livello di equilibrio ottimale, in cui il microbiota lavora per il bene dell’organismo e viceversa (eubiosi). Si modifica adattandosi all’ambiente circostante ma comunque rimane in equilibrio positivo. Purtroppo fattori potenti come l’uso di antibiotici, una dieta sbilanciata, una patologia infiammatoria, possono invece far cadere il microbiota sul livello inferiore in cui l’equilibrio non è più positivo, anzi tende ad essere autodistruttivo (disbiosi). Non solo: riportare il microbiota al livello superiore richiederebbe decisamente molta più energia di quella richiesta per farlo cadere (re-biosi).

 

1) La pallina blu (microbiota) si muove in equilibrio sul ripiano più alto (eubiosi); 2) la pallina blu (microbiota) si muove in equilibrio ma sul ripiano più basso (disbiosi). Riportare la pallina allo stato originario richiede molta energia.

E’ difficile stravolgere il microbiota se è stabile

Prendiamo l’esempio di una partecipante al progetto che, dopo aver mangiato carne cruda contaminata, ha avuto evidenti problemi intestinali. Dopo 4 giorni di forte dissenteria e digiuno ha effettuato il prelievo. Dobbiamo ammettere che i suoi risultati sono stati veramente interessanti.

Il suo microbiota sembrava perfettamente sano: nessun disequilibrio, nessun impoverimento della flora. Solo la fortuita presenza di un organismo chiamato Campylobacter, un comune batterio che causa infezioni da alimenti contaminati (specialmente Campylobacter jejuni). Una volta passata l’infezione, il soggetto si è ristabilito perfettamente.

I valori di biodiversità e disbiosi sono equilibrati tranne che per la presenza di un batterio potenzialmente patogeno, identificato come Campylobacter.

L’equilibrio positivo va coltivato

Se nemmeno 4 giorni di diarrea e digiuno riescono a modificare il microbiota, pensate a quanto stabile è la nostra flora intestinale quando è sana. Pensate invece a quanto forti e continuativi devono essere gli stimoli per modificarlo (e nel mondo occidentale siamo dei maestri nel trovarli). Pensate infine a quanto dev’essere difficile riportare un microbiota al livello superiore, una volta che è caduto in un suo stabile disequilibrio.

Ogni giorno le nostre scelte possono influenzare il nostro microbiota e la sua resilienza. Pertanto cerchiamo di evitare i comportamenti dannosi, soprattutto protratti per lungo tempo, in modo da coltivare un equilibrio positivo, stabile e allontanare una condizione autodistruttiva. E questo vale per il corpo tanto quanto per la mente.

Alla prossima!

Eleonora Sattin, PhD
Responsabile servizio Microbioma Italiano presso BMR Genomics


Mosca et al. 2016. Gut Microbiota Diversity and Human Diseases: Should We Reintroduce Key Predators in Our Ecosystem?

Epicentro, Istituto Superiore di Sanità – Campylobacter

Allena il tuo microbioma – parte seconda

 

Che stress l’attività fisica!

Quanti di voi lo hanno pensato, almeno una volta?

In effetti l’esercizio fisico rappresenta, nel breve termine, una forma di stress per l’organismo, in quanto ne perturba l’omeostasi interna, vale a dire quella condizione di equilibrio dinamico che permette la vita.

Stress e resilienza

Un’attività ad alta intensità e prolungata nel tempo aumenta la temperatura interna del corpo e riduce il flusso sanguigno nell’intestino di più del 50%, inducendo una transitoria ischemia intestinale nell’arco di 10 minuti e aumentando la disidratazione.

L’esercizio fisico, inoltre, aumenta temporaneamente la permeabilità intestinale, l’infiammazione a livello sistemico e lo stress ossidativo.

L’organismo risponde allo stimolo stressogeno dell’attività fisica mettendo in atto una serie di meccanismi di adattamento benefici che, nel lungo termine, migliorano la resilienza della barriera intestinale e dell’intero organismo.

La sinergia tra microbiota e attività fisica

Il microbiota intestinale può influenzare l’adattamento all’esercizio fisico, in quanto può avere un ruolo chiave nel controllo dello stress ossidativo e della risposta infiammatoria, così come nel miglioramento del metabolismo energetico e dello stato di idratazione, durante un’attività ad alta intensità.

Viceversa, l’attività fisica è in grado di modificare, indipendentemente dalla dieta, la composizione del microbiota intestinale, aumentando la diversità delle comunità microbiche e l’abbondanza dei batteri produttori di butirrato, quali Faecalibacterium prausnitzii e le specie del genere Oscillospira, Lachnospira e Coprococcus, che contribuiscono al benessere intestinale.

Ne avevamo parlato nell’ultimo articolo del nostro blog, ricordate?

Sebbene sia un campo di ricerca ancora aperto, non vi è dubbio che esista una relazione sinergica tra esercizio fisico e microbiota e questa sinergia può essere, in parte, responsabile dei benefici di una regolare attività fisica sulla salute.

L’evidenza più interessante che sta emergendo dalle ultime ricerche è che questi benefici si osservano anche nei confronti di patologie croniche.

Vediamo alcuni dati.

Ruolo del butirrato in alcune patologie

Tumore del colon retto

Studi osservazionali indicano che i soggetti fisicamente attivi hanno un rischio ridotto del 24% di sviluppare il tumore del colon retto rispetto ai sedentari. Inoltre, nei pazienti affetti da questa forma di tumore, una regolare attività fisica può migliorare la qualità della vita e ridurre la mortalità complessiva.

Il meccanismo alla base potrebbe essere proprio una maggiore produzione di butirrato.

I pazienti affetti da tumore del colon retto, infatti, mostrano disbiosi intestinale, con una ridotta abbondanza di specie produttrici di butirrato, come Roseburia e Lachnospiraceae.

Da studi in vitro è emerso che il butirrato è in grado di regolare in maniera diversa l’espressione di determinati geni nelle cellule cancerose rispetto alla cellule sane.

Mentre nelle cellule sane il butirrato porta a una maggiore proliferazione cellulare e al rafforzamento della barriera intestinale, nelle cellule tumorali ha l’effetto inverso, in quanto inibisce la proliferazione e induce la morte cellulare, con conseguente riduzione della dimensione del tumore e della probabilità di metastasi.

Obesità e Sindrome metabolica

Il microbiota intestinale risulta strettamente associato anche all’obesità e alla sindrome metabolica, quella pericolosa combinazione di una serie di fattori di rischio cardiovascolare.

Studi sui topi hanno mostrato che il microbiota degli animali obesi ha una capacità significativamente più alta di ricavare energia dalla dieta e di indurre permeabilità intestinale, portando all’ingresso di endotossine nel circolo sanguigno.

Questa condizione determina aumento di peso e insulino resistenza.

L’esercizio fisico è in grado di attenuare la disbiosi e la permeabilità intestinale e di aumentare l’abbondanza di batteri produttori di butirrato.

In modelli animali di obesità è stato visto che il butirrato aumenta il consumo energetico, riduce l’adiposità, migliora la sensibilità all’insulina e stimola la produzione degli ormoni della sazietà.

Disordini dell’umore

E’ noto che l’attività fisica apporti dei benefici sulla salute mentale e neurologica ed è plausibile che alcuni di questi benefici siano mediati proprio dal microbiota, grazie all’asse intestino-cervello, di cui abbiamo già parlato.

Anche in questo caso, il butirrato e i batteri che lo producono sembrano essere gli attori principali. L’abbondanza di Lachnospiraceae, ad esempio, correla negativamente con l’ansia.

In modelli animali, il butirrato ha mostrato attività antidepressiva, aumentando i livelli di serotonina nel cervello. Inoltre, supporta la sopravvivenza dei neuroni e stimola la produzione di nuovi neuroni e sinapsi.

Lo sport migliora la vita e l’umore e lo fa con il contributo del nostro microbiota.

Quindi, alleniamo il nostro microbiota!

 

Ilena Li Mura, PhD

Biologa nutrizionista


References

Exercise and the Gut Microbiome: A Review of the Evidence, Potential Mechanisms, and Implications for Human Health

Endurance exercise and gut microbiota: A review

 

IBD: circolo vizioso di infiammazione e disbiosi intestinale

Ho diversi conoscenti che soffrono di IBD e, stando alle loro descrizioni, questa condizione non è per nulla una passeggiata. Dolori, gonfiore addominale, malassorbimento, diarrea, sangue nelle feci, disagi ogni giorno. Ma cos’è l’IBD?

L’IBD, acronimo che sta per l’inglese Irritable Bowel Disease (Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali, MICI), definisce una serie di patologie che comprendono, tra le altre, anche il famoso Morbo di Crohn e la Rettocolite Ulcerosa. Sono tutte patologie intestinali che non hanno un’origine ancora ben chiara (si dice: malattie idiopatiche) ma quello che si sa è che le cause scatenanti siano diverse.

Cosa succede nell’intestino con IBD?

L’intestino che sviluppa IBD assomiglia ad un campo di battaglia. Le cellule del sistema immunitario tendono ad attaccare le pareti dell’intestino, causando infiammazione, rigonfiamento, nei casi più gravi emorragie e cancrena (il tessuto muore). Le IBD infatti sono anche considerate patologie autoimmuni in quanto il sistema immunitario tende ad attaccare un organo dello stesso corpo a cui appartiene. L’infiammazione è accompagnata, o preceduta, da un microambiente intestinale che favorisce la crescita di batteri patogeni e proinfiammatori che alimentano l’infiammazione stessa. E così via, in un circolo vizioso.

Quali sono le cause dell’IBD?

Primo su tutti una persona dev’essere predisposta geneticamente: ci sono più di 230 geni implicati nello scatenarsi della patologia e il 12% dei casi di IBD sono familiari e trasmissibili. Non a caso molti dei 230 geni coinvolti hanno a che vedere con funzioni disregolate della barriera intestinale e con le interazioni anomale ospite-microbiota, anche a livello di sistema immunitario.

Nondimeno, diversi fattori ambientali possono favorire l’insorgenza o l’aggravamento della patologia: alcol, fumo, farmaci come antinfiammatori non steroidei e contraccettivi orali, e soprattutto la dieta. Tutti questi fattori sono implicati nella rimodulazione della barriera intestinale, del microbiota e del sistema immunitario.

E il microbiota?

Non è un caso se tutti i pazienti con IBD mostrano un microbiota disbiotico. La notizia interessante è che il microbiota disequilibrato non è una mera conseguenza della situazione patologica ma ne è una vera e propria causa. Diversi studi hanno dimostrato questa tesi: ad esempio è stato rilevato che il trapianto fecale oppure l’utilizzo di probiotici e antibiotici aiutano nella remissione dei sintomi. Questo suggerisce che, quando il microbiota sta bene, anche la patologia tende a scomparire e viceversa.

Normalmente i soggetti con IBD mostrano un microbiota intestinale molto meno vario rispetto ai sani e un incremento di batteri proinfiammatori come le Enterobatteriacee, specialmente E. coli e il Fusobacterium. Parallelamente si assiste ad una diminuzione di batteri che producono una molecola molto importante per il benessere intestinale e immunitario: il butirrato. Batteri come Firmicutes, Bacteroidetes, Lactobacillus e Faecalibacterium prausnitzii infatti tendono a diminuire. Guardate il profilo del microbiota intestinale di un partecipante al Microbioma Italiano che soffre di IBD. Si nota chiaramente la disbiosi ed un’altissima presenza di Enterobatteriacee, di cui una parte è composta da E. coli.

Tabella dell’indice di disbiosi. Il valore rappresenta un livello elevato di disbiosi del microbiota del soggetto.

Grafico che rappresenta la percentuale di abbondanza di alcune famiglie batteriche. Si nota la grande presenza di Enterobacteriaceae (ultima riga).

Come si cura l’IBD?

Attualmente le cure si basano su farmaci che bloccano o attenuano la risposta immunitaria. Infatti il primo approccio contro l’infiammazione cerca di fermare le cellule immunitarie infiammatorie ed i loro segnali d’allarme. Ma basta? Purtroppo tali patologie richiedono cure che durano tutta la vita, con alti e bassi, momenti migliori e ricadute. Pertanto è necessario fare qualcosa in più. Ovvero, data la loro implicazione nell’insorgenza della patologia, lo stile di vita e soprattutto la dieta possono diventare utilissimi alleati dei farmaci.

Negli anni diversi gruppi di ricerca hanno testato svariati approcci di nutrizione funzionale, altresì diete che potessero aiutare i pazienti nel mantenimento della remissione dei sintomi dell’IBD.

Quali sono gli alimenti che favoriscono il benessere intestinale in caso di patologie infiammatorie croniche? Ci sono delle diete che effettivamente funzionano?

Di tutto questo parleremo nella prossima puntata.

A presto!

Eleonora Sattin, PhD
Responsabile servizio Microbioma Italiano di BMR Genomics


Inflammatory bowel disease and immunonutrition: noveltherapeutic approaches through modulation of diet and the gut microbiome

Nutrition, IBD and Gut Microbiota: A Review

Quando lo stile di vita ti cambia la vita… e il Microbiota

Anni fa lessi con meraviglia le parole del fisico quantistico Felix Toran sulla legge del tempo e sulla transitorietà della materia: “ogni cinque anni, massimo sette, ogni atomo del nostro corpo si rigenera, completamente – ci sono atomi che vanno e vengono, niente rimane nel corpo umano immutabile”.

E così siamo persone in continua evoluzione, tutto cambia in noi, dai nostri pensieri alle nostre molecole.

Questo vale anche per la comunità di microrganismi che ci portiamo dentro.

Il Microbiota è una comunità dinamica e in continua evoluzione

Il complesso ecosistema del Microbiota intestinale varia nel corso della nostra vita, continuamente modellato da una serie di fattori come l’invecchiamento, l’alimentazione, l’attività fisica, i farmaci, lo stress, le malattie.

Non so a voi, ma a me ogni prospettiva di cambiamento ha sempre dato speranza e un gran sollievo.

Abbiamo un ampio margine di intervento sul nostro Microbiota, soprattutto con la nostra alimentazione.

Report Evo a confronto

I dati, si sa, a volte sono più comunicativi delle parole.

Oggi vogliamo mostrarvi come un profondo cambiamento delle abitudini alimentari e dello stile di vita abbia migliorato la vita e il Microbiota a una di voi, una partecipante al Progetto Microbioma Italiano.

Abbiamo messo a confronto il report Evo di una sua analisi fatta nel 2015 con quello di due analisi successive, fatte nel 2019 e nel 2020 rispettivamente.

Ma cosa è cambiato in questi anni?

Nel 2015 il nostro case study, come si usa dire nel mondo della ricerca, seguiva una dieta poco varia, in quanto mangiava sempre la stessa tipologia di cibi. La sua alimentazione era caratterizzata da un elevato contenuto di grassi saturi, principalmente da formaggi e carne rossa, alimenti ad alta densità calorica, ricchi in zuccheri aggiunti, carboidrati raffinati e uno scarso apporto di fibra.

Quella che possiamo definire la tipica dieta occidentale.

A ciò si aggiungeva un lavoro molto sedentario e l’assenza di attività fisica.

Pur non avendo malattie conclamate e pur non essendo in sovrappeso, la nostra amica accusava uno stato di malessere generale, stanchezza cronica, fatica, mancanza di energia nello svolgimento delle normali attività quotidiane, gonfiore addominale e pesantezza.

Questo l’ha spinta a cambiare sensibilmente il suo stile di vita e a mantenerlo negli anni successivi.

Ha iniziato a svolgere regolarmente attività fisica (3-4-volte a settimana), ma soprattutto ha intrapreso un percorso di rieducazione alimentare, guidata da una nutrizionista.

Il nuovo piano alimentare era caratterizzato da un adeguato apporto di fibra (25-30 gr al giorno) da frutta, verdura e cereali non raffinati, da un maggior consumo di pesce, in particolare pesce azzurro, di frutta secca e di semi oleosi, importanti fonti di acidi grassi polinsaturi omega-3, e da prodotti fermentati e caseari a ridotto contenuto di grassi (ha iniziato a produrre lo yogurt in casa!).

Per contro, ha ridotto il consumo di carne rossa, alimenti processati e zuccheri aggiunti e nel complesso ha iniziato a variare molto la tipologia di cibi, introducendo alimenti a lei prima sconosciuti.

Vi ricorda forse la dieta mediterranea di cui abbiamo parlato?

Vediamone i risultati!

Risultati

La prima differenza significativa che emerge dal confronto tra l’analisi del 2015 e quelle successive è un netto aumento della ricchezza e della diversità della comunità microbica, parametri associati a uno stato di eubiosi, ovvero di equilibrio tra le varie specie batteriche.

Ma proviamo a dare uno sguardo ai grafici.

Nella prima analisi la famiglia delle Bacteroidaceae è particolarmente alta e fuori dagli intervalli di riferimento, mentre nella seconda analisi e nella successiva è rientrata all’interno dei valori riscontrati nei controlli sani.

E’ noto dalla letteratura scientifica che le diete caratterizzate da un eccessivo consumo di proteine animali e da un alto contenuto di grassi saturi e zuccheri portano a un aumento dei batteri bile-tolleranti appartenenti a questa famiglia a svantaggio dei batteri coinvolti nel metabolismo dei polisaccaridi vegetali, come Ruminococcaceae e Lachnospiraceae. Viceversa, l’apporto di fibre con gli alimenti promuove la crescita e l’attività dei microrganismi che producono butirrato, un acido grasso a catena corta utilizzato dagli enterociti del colon come fonte primaria di energia e con vari effetti benefici sulla fisiologia dell’ospite (antinfiammatori e antitumorali, ad esempio). Un adeguato consumo di fibre, inoltre, stimola le popolazioni di Bifidobatteri e Lattobacilli.

Il grafico relativo ai batteri benefici è decisamente più popolato nell’analisi del 2019 rispetto a quella del 2015!

Molto interessante l’aumento significativo di Faecalibacterium prausnitzii che è uno dei principali batteri produttori di butirrato, e Akkermansia muciniphila, dalle note proprietà antinfiammatorie.

Complessivamente, nella seconda analisi il nostro case study presenta una composizione del Microbiota intestinale con una bassa capacità di predisporre alla permeabilità intestinale e ai disordini metabolici e una buona capacità di difendere l’organismo dai patogeni esterni (effetto scudo), un risultato nettamente diverso rispetto alla prima analisi.

Ma vi dirò di più, questi risultati sono stati confermati, nel loro complesso, nell’ultima analisi del 2020 in cui è stata riscontrato un ulteriore aumento dei batteri benefici, in particolare Bifidobacterium adolescentis.

La sana nutrizione premia sempre e lo fa nel lungo termine!

E voi cosa aspettate a vedere gli effetti della vostra alimentazione sul vostro Microbiota attraverso il nostro report Evo?

 

Ilena Li Mura, PhD

Biologa nutrizionista

Lievito di birra e benessere intestinale

C’è stato un momento in questi mesi di lockdown in cui nei supermercati non si riusciva più a trovare né farina né tantomeno il lievito. Il web è stato subito popolato da meme e post su “gli italiani, popolo di impastatori” in cui si prendeva in giro l’incredibile e riscoperta attitudine degli italiani alla produzione casalinga di pane, pizze, brioches, focacce e così via. Probabilmente è un’attitudine che conserviamo nel nostro DNA e che tiriamo fuori quando diventa necessaria ?.

Questa corsa alla panificazione mi ha fatto pensare a quel microrganismo fedele e fondamentale per la lievitazione che è il lievito di birra, ovvero Saccharomyces cerevisiae. Ne abbiamo mangiato a teglie intere ma… questo lievito ha qualcosa a che vedere con il nostro microbiota?

Partiamo dall’inizio 

Non se ne parla spesso ma il microbiota intestinale è un piccolo-grande ecosistema in cui non ci sono solo i famosi batteri. Il colon infatti è ricchissimo anche di altre forme viventi tra cui virus (che però non sono considerati “viventi” in senso stretto), protozoi e, per l’appunto, funghi e lieviti. Quest’ultima sezione del microbiota, chiamata micobiota [dal greco μύκης «fungo»; latino scient. myco-], è purtroppo meno studiata ma alcune informazioni si conoscono già.

Ad esempio si sa che, rispetto ai batteri, funghi e lieviti sono decisamente meno presenti e meno vari. Tuttavia tra persona e persona variano tanto quanto all’interno dello stesso soggetto in periodi diversi. Quindi se il microbioma batterico è una sorta di impronta digitale di una persona, il micobioma fungino no.

Guarda un po’ chi si rivede!

Abbiamo tre principali lieviti o funghi nell’intestino: Candida albicans, Malassezia restricta e, udite udite, Saccharomyces cerevisiae. Proprio lui ed è pure il più abbondante di tutti! Non solo: sembra che il nostro lievito di birra intestinale abbia un effetto antinfiammatorio e protettivo della barriera intestinale, a sostegno di quello della flora batterica.

In uno studio su pazienti con Morbo di Crohn alcuni ricercatori infatti hanno rilevato, oltre alla modifica del microbioma batterico, che S. cerevisiae tendeva ad essere meno abbondante rispetto al gruppo dei sani. Al contrario C. albicans era aumentata (come solitamente tende ad aumentare dopo un pasto ricco in carboidrati). 

Tuttavia la supplementazione* con S. cerevisiae ha apportato un beneficio ai pazienti promuovendo la produzione di molecole antinfiammatorie. Probabilmente, concludono gli autori dello studio, i soggetti con Morbo di Crohn, avendo una inferiore abbondanza di S. cerevisiae intestinale, sono meno protetti da un incremento dello stato infiammatorio tipico della patologia.

Un nuovo mondo ci aspetta

Non è ancora chiaro quanto il micobioma fungino sia influente sulla salute rispetto al microbioma batterico, che è più abbondante e unico. Tuttavia il fatto che si modifichi in caso di malattia e giovi in caso di supplementazione, fa ben sperare. In un certo senso quindi il lievito di birra sembra legato al benessere intestinale.

Sicuramente l’esplorazione del micobioma fungino è un ambito interessante e anche noi di Microbioma Italiano vogliamo iniziare a farlo. Ci vorrà ancora qualche tempo ma l’intenzione di adottare una tecnologia di sequenziamento del DNA accessibile a tutti e che ci permetta di avere l’immagine completa della flora intestinale c’è assolutamente e non ne vediamo l’ora!

Nel frattempo continuate a panificare e a voler bene a quel piccolo lievito sia nel forno che nella pancia.

Alla prossima!

Eleonora Sattin, PhD
Responsabile servizio Microbioma Italiano presso BMR Genomics

*con lievito vivo. Il lievito nel pane o nella birra purtroppo è morto e non può supplementare nulla, se non come nutriente per la flora residente


The gut mycobiome of the Human Microbiome Project healthy cohort

Remission in Crohn’s disease is accompanied by alterations in the gut microbiota and mucins production

Lunga vita al Microbiota

… o grazie al Microbiota?

Entrambe le cose, data la natura mutualistica della profonda e antica relazione tra batteri e umani.

Ma esiste una “firma” del Microbiota in termini di longevità?

E’ la domanda alla quale hanno cercato di rispondere diversi gruppi di ricerca, studiando quello che potrebbe essere definito il miglior modello di “invecchiamento di successo”: i centenari (99-104 anni d’età) e i semi supercentenari (105-109 anni d’età).

Rispetto agli ottuagenari e nonagenari appartenenti allo stesso gruppo, in termini di genetica e stile di vita, i centenari mostrano una più bassa incidenza di malattie croniche, bassi livelli di infiammazione cronica dovuta all’invecchiamento (inflammaging), assenza o ritardato esordio di deterioramento cognitivo, assenza di malattie neurodegenerative (Parkinson e Alzheimer), bassi livello di ansia e depressione.

Non male, vero?

Quella dei centenari appare, dunque, una condizione eccezionale e affascinante, in termini fisiologici e “filosofici”.

Rappresenta una miscela unica di forza e fragilità accumulate negli anni, che coesistono e sono il risultato della straordinaria capacità di questi soggetti di rispondere e adattarsi all’insieme degli stimoli “dannosi” che la vita comporta, come stress ossidativo, infiammazione ed esposizione a sostanze estranee tossiche, i cosiddetti xenobiotici.

Una bella metafora di resilienza, non trovate?

Disbiosi e “inflammaging”

Vi starete chiedendo quale potrebbe essere la formula dell’elisir di lunga vita. Le variabili in gioco sono molteplici e “il tutto è diverso dalla somma delle parti”, vale nella psicologia della Gestalt come anche in fisiologia.

Il Microbiota intestinale, in condizioni non disbiotiche, è una delle variabili che possono contribuire all’invecchiamento “in salute” dell’organismo umano, preservando nell’ospite l’omeostasi fisiologica e immunitaria, contrastando il processo di inflammaging, la permeabilità intestinale e il deterioramento della salute ossea e mentale.

E’ noto che la disbiosi intestinale favorisca uno stato di infiammazione a livello sistemico che, a sua volta, determina un aumento delle cosiddette specie reattive dell’ossigeno o radicali liberi,  coinvolti nell’insorgenza di numerose patologie e nell’invecchiamento.

In queste condizioni, i cosiddetti “patobionti”, come Enterobacteriaceae, Enterococcaceae, Staphylococcaceae, proliferano, a discapito di altre specie batteriche benefiche, in quanto sono microrganismi aerobi facoltativi, vale a dire che riescono a tollerare la maggiore disponibilità di ossigeno che caratterizza l’intestino infiammato, supportando condizioni pro-infiammatorie e alimentando un circolo vizioso infiammatorio che porta all’insorgenza di una serie di malattie tipiche dell’invecchiamento.

A tutto ciò va aggiunto il contributo della genetica, dello stile di vita e dei fattori ambientali.

Longevità, un patto con il Diavolo?

L’evidenza più interessante è emersa dal confronto delle comunità microbiche intestinali nei centenari e nei semi supercentenari rispetto a soggetti di altre classi di età appartenenti alla stessa popolazione di riferimento, in un range dai 22 ai 109 anni.

Questi studi hanno portato alla luce caratteristiche uniche dei centenari, in termini di composizione del Microbiota intestinale, rispetto al gruppo degli adulti giovani e degli anziani settantenni, suggerendo l’insorgenza di un profondo rimodellamento adattativo del Microbiota intestinale dopo 100 anni di associazione simbiotica con il suo ospite.

Più che scendere a patti con il Diavolo, quindi, i soggetti particolarmente longevi sembrano aver “rinegoziato il patto mutualistico” con il proprio Microbiota, cambiando, in parte, i partners batterici che supportano il loro stato di salute. 

In particolare, il Microbiota dei centenari mostra una più alta diversità in termini di composizione delle specie batteriche e una diminuzione di alcune specie produttrici di butirrato (Ruminococcus obeum, Roseburia intestinalis, Eubacterium ventriosum, Eubacterium rectale, Eubacterium hallii, Papillibacter cinnamovorans, Faecalibacterium prausnitzii), controbilanciata da un aumento di altre specie benefiche, quali Akkermansia muciniphila, Bifidobacterium longum, Eggerthella lenta, Christensenellaceae, associate a un basso indice di massa corporea e con proprietà antinfiammatorie e immunomodulanti. 

Un’altra interessante caratteristica del Microbiota dei centenari e in particolare dei semi supercentenari è la presenza di un maggior numero di geni microbici coinvolti della degradazione degli xenobiotici, probabilmente come risultato di un processo di adattamento funzionale all’esposizione continua e all’accumulo di queste sostanze tossiche nel corso della loro lunga vita. 

Invecchiare nei paesi industrializzati comporta anche questo.

In conclusione

I soggetti più longevi perdono alcune componenti caratteristiche del microbioma intestinale degli adulti, per acquisire una nuova salutare “ricchezza microbica”. 

Penso che sia questo, in fondo, il vero segreto dell’invecchiare bene, lasciar andare la vita adulta, così come si è abituati a viverla, per accogliere una nuova condizione di equilibrio, ad ogni livello, dal micro al macro-scopico.

PS: in copertina una mia foto delle Highlands scozzesi nella lontana estate 2010, un bel posto dove invecchiare 🙂

Ilena Li Mura, PhD

Biologa Nutrizionista


References

Gut microbiota changes in the extreme decades of human life: a focus on centenarians.

Shotgun Metagenomics of Gut Microbiota in Humans with up to Extreme Longevity and the Increasing Role of Xenobiotic Degradation

Il microbiota intestinale potrebbe predisporre al COVID-19

Era nell’aria già da un po’. Ma d’altronde come poteva non essere così?

In un articolo scientifico del 25 Aprile viene sottolineata l’importanza del legame tra microbiota intestinale e COVID-19. Purtroppo il paper non è ancora pubblicato pertanto non è stato ancora sottoposto a correzioni formali, le cosiddette peer review ma, con le opportune cautele, mostra già delle considerazioni molto interessanti.

Il gruppo di ricercatori che ha condotto lo studio è partito da un’idea molto semplice: la patologia COVID-19 nella sua forma peggiore mostra una reazione immunitaria esagerata. Questo porta l’organismo a predisporre uno stato infiammatorio inutilmente potente che, in un circolo vizioso, lo indebolisce e lo rende vulnerabile. Cosa accade nell’organismo dei pazienti infettati da SARS-CoV-2 e che sviluppano la sindrome acuta COVID-19? Possiamo predire se una persona si ammalerà di COVID-19 e quanto severamente? Possiamo prevenirlo?

Lo studio dell’infiammazione

I ricercatori hanno analizzato tutte le proteine presenti nel sangue di 31 persone infette. Hanno subito notato che all’aumentare di certe proteine aumenta il rischio di incorrere in una evoluzione severa di COVID-19. Chiameremo queste proteine “marcatori.

Oltre a queste, esistono alcune particolari proteine del sangue chiamate citochine che sono mediatori dell’infiammazione e allertano le cellule del sistema immunitario perché sfoderino le armi per combattere l’infezione. Sono come gli squilli di tromba che svegliano un intero esercito. All’aumentare dei “marcatori proteici aumentano anche le famose citochine infiammatorie, seguendo uno schema matematico. Applicando questo modello su persone sane, si è visto che uno schema molto simile era presente principalmente in persone adulte oltre i 58 anni. Riassumendo:

età = marcatori =  citochine =  probabilità di COVID-19 severa

Dice nulla? Probabilmente non è un caso se la sindrome respiratoria acuta COVID-19 insorge principalmente in persone adulte o anziane. La teoria dell’inflammaging sostiene da molti anni che l’invecchiamento corrisponde ad un accumulo di fattori infiammatori nell’organismo [ndr]. Pertanto la presenza di uno stato già di base infiammato in adulti e anziani potrebbe favorire quell’esplosione infiammatoria esagerata che avviene in presenza del SARS-CoV-2.

Ma che c’entra il microbiota?

Tramite l’analisi del microbiota, simile a quella che facciamo con Microbioma Italiano, i ricercatori hanno correlato la presenza di citochine infiammatorie con il microbiota dei soggetti sani. Gli scienziati hanno quindi evidenziato che l’abbondanza di determinati batteri era correlata alla presenza di particolari citochine infiammatorie. Ad esempio, Bacteroides, Streptococcus e i Clostridiales tendevano a diminuire mentre Ruminococcus, Blautia e Lactobacillus tendevano ad aumentare in presenza delle citochine. Questo fatto è un po’ curioso in quanto questi ultimi tre batteri sono notoriamente anti-infiammatori, tuttavia un loro aumento potrebbe avere altri significati [ndr]. 

Analizzando anche i metaboliti (le molecole prodotte dai batteri intestinali), i ricercatori hanno notato che erano molto rappresentate delle molecole che hanno a che fare con la costruzione di proteine che attivano l’infiammazione! In questo senso il microbiota intestinale potrebbe favorire il COVID-19 promuovendo la produzione di particolari proteine pro-infiammatorie. Che questo sia dovuto all’infezione o meno non è chiaro, ma sicuramente un’attività batterica sbilanciata in favore della produzione di proteine infiammatorie potrebbe aiutare l’insorgenza della patologia più severa.

Conclusioni

Che i batteri intestinali fossero coinvolti nelle risposte infiammatorie e nella protezione da infezioni, è cosa nota e ne avevamo già parlato. Tuttavia questi risultati potrebbero davvero essere utili. Infatti i marcatori batterici e molecolari individuati in questo lavoro potrebbero diventare dei target per sviluppare terapie o per definire metodi di predizione dell’evoluzione della patologia e bloccare la fase acuta.

D’altra parte i risultati dello studio sottolineano come il mantenimento dell’equilibrio del microbiota intestinale sia fondamentale e possa diventare anche una strategia parallela di cura durante un COVID-19, come hanno già proposto in Cina.

Ad ogni modo la ricerca continua.

 

Eleonora Sattin, PhD
Responsabile servizio Microbioma Italiano a BMR Genomics


Gut microbiota may underlie the predisposition of healthy individuals to COVID-19.

Inflammaging: a new immune–metabolic viewpoint for age-related diseases

Batteri del buonumore? Esistono e sono farmaci viventi

Vi siete mai sentiti arrabbiati, tristi, ansiosi oppure anche solo stanchi e svogliati dopo una terapia antibiotica? Tranquilli, è tutto normale. Questa reazione è solo uno dei diversi modi con cui il microbiota fa sentire che c’è e che ha qualcosa da ridire. Sì, perché se da una parte gli antibiotici sono fondamentali per curare un’infezione batterica, dall’altra possono colpire anche batteri intestinali benefici. Infatti se si assumono i cosiddetti antibiotici “ad ampio spettro”, ovvero non specifici per un determinato gruppo di microrganismi, questi farmaci uccidono un po’ tutti i batteri sensibili a quella molecola. Buoni o cattivi che siano.

Benefici batteri intestinali residenti

Abbiamo già parlato del ruolo che il microbiota ha nei confronti della nostra salute mentale, del nostro umore, della nostra socialità. Un microbiota equilibrato comunica con il nostro organismo in modo da fornire sostegno energetico, nutritivo, ormonale ed ottenere in cambio cibo e protezione. Tuttavia fattori esterni (come terapie antibiotiche protratte per lungo tempo) o interni (come l’età avanzata) possono modificare questi equilibri e sostenere la crescita incontrollata di batteri infiammatori. Tutto questo a discapito di quei batteri che, come degli ambasciatori, tentavano di favorire la civile convivenza tra microbiota e ospite. Batteri come le Lachnospiraceae, F. prausnitzii, A. muciniphila, i Bifidobatteri e i Lattobacilli, sono degli ambasciatori intestinali e in presenza di patologie infiammatorie o terapie antibiotiche purtroppo tendono a diminuire.

Da pro-biotici a psico-biotici

Non è strano che questi ambasciatori benefici siano definiti probiotici (a favore della vita). Essi agiscono positivamente sul nostro organismo digerendo le molecole alimentari e trasformandole in composti antinfiammatori, energetici e immunostimolanti. Inoltre molti di questi probiotici sono coinvolti anche nella modulazione dell’asse intestino-cervello, nella regolazione dell’umore, nelle funzioni cognitive, nei processi di apprendimento e di memoria. Una loro forte diminuzione è stata vista in casi di patologie neurodegenerative (Alzheimer, Parkinson) oppure in caso di disordini mentali (depressione, autismo). Molti studi hanno riportato una correlazione tra assunzione prolungata di antibiotici, disbiosi, diminuzione di batteri probiotici e aumento di comportamenti simili a depressione o ansia.

Ma quindi se in queste patologie mancano determinati batteri, non potremmo reintegrarli? Ecco che da probiotici diventerebbero quasi dei farmaci per la mente: gli psicobiotici, appunto.

Medicina alternativa?

Non è un caso se, in concomitanza con una terapia antibiotica, sia consigliata l’assunzione di probiotici, anche in seguito alla conclusione della terapia stessa. In questo modo si favorisce la ricolonizzazione dell’intestino con batteri probiotici che a loro volta stimolano la crescita di altri batteri benefici. Lo stesso concetto di integrazione è stato applicato in vari studi di neuropsicologia, anche se ancora maggiormente su topi. 

Ad esempio Lactobacillus plantarum PS128 e Lactobacillus rhamnosus (JB-1) anche singolarmente evidenziano attività ansiolitiche, antidepressive. Bifidobacterium longum 1714 è anche antistress mentre Lactobacillus helveticus NS8 riduce le disfunzioni cognitive e così via.

Diverse mix di probiotici sono in fase di sperimentazione per patologie come Alzheimer, Parkinson, autismo, ADHD. La ricerca sta procedendo e molti studi si stanno spostando dai topi agli umani, pertanto in qualche tempo probabilmente potremo avere un nuovo scaffale in farmacia. O nel banco frigo, dato che diverse aziende produttrici di probiotici e alimenti si stanno già muovendo in tal senso.

Nuove prospettive partendo da dentro di noi

Il termine integrazione è molto incoraggiante ma spesso nasconde un punto focale: i nostri probiotici intestinali ce li abbiamo già e li dobbiamo allevare amorevolmente. Questo implica che il nostro comportamento, specialmente quello alimentare, deve fornire giornalmente ai nostri batteri benefici tutto l’occorrente per proliferare al meglio. 

La seguente tabella è una parte dell’analisi EVO di una persona che, pur non prendendo probiotici, ha nel suo intestino un’alta varietà di batteri benefici.

Batteri probiotici possono naturalmente essere presenti nell’intestino. A. muciniphila e F. prausnitzii sono i più comuni mentre i Bifidobatteri sono più presenti nei bambini o in caso di assunzione di probiotici integratori.

 

Dieta, movimento e stile di vita salutare saranno fondamentali per non perderli.

E voi, che batteri benefici avete?

Per chi volesse scoprirlo diamo un coupon con il 20% di sconto* sull’analisi di Microbioma Italiano, sia Evo che base: ev20-2204-1548.

Alla prossima!

Eleonora Sattin, PhD
Responsabile servizio Microbioma Italiano di BMR Genomics

*valido fino al 31/05/2020


Psychobiotics in mental health, neurodegenerative and neurodevelopmental disorders.

The Microbiome and Host Behavior.

Gut-Brain Psychology: Rethinking Psychology From the Microbiota–Gut–Brain Axis

Mangia l’arcobaleno

“Eat the rainbow”, letteralmente “mangia l’arcobaleno”, è il mantra che viene ripetuto ai pazienti ricoverati per depressione presso la Facoltà di Medicina di Graz, in Austria.

Questa espressione, facile da memorizzare e dal significato immediato, viene utilizzata per spiegare ai pazienti le basi della dieta mediterranea.

Ma perchè la dieta mediterranea dovrebbe apportare dei benefici a chi soffre di disturbi dell’umore come ansia e depressione?

Nell’ ultimo articolo del nostro blog vi avevamo anticipato qualcosa, oggi ne parleremo più approfonditamente.

I modelli dietetici “sani” per il benessere mentale

Lo stile di alimentazione mediterraneo rappresenta un modello di nutrizione “di alta qualità”, così come la dieta giapponese, la dieta norvegese, la dieta vegetariana e la cosiddetta dieta DASH (Dietary Approach to Stop Hypertension), ovvero la dieta volta al controllo dell’ipertensione.

Applicando questi modelli alimentari a diversi gruppi di pazienti con disturbi dell’umore è emersa una correlazione significativa con il miglioramento di sintomi quali rabbia, depressione, ansia, tensione, fatica, stress e punteggio globale POMS (Profile Of Mood States), un test utilizzato per rilevare i disturbi del tono dell’umore.

Cosa hanno in comune questi regimi alimentari?

Si tratta di stili di alimentazione caratterizzati da un elevato apporto di frutta e verdura, cereali non raffinati, legumi, noci, semi oleosi, pesce, prodotti fermentati e caseari a ridotto contenuto di grassi e, per contro, un limitato consumo di carne rossa, alimenti processati e zuccheri aggiunti.

Gli alimenti che tali diete prediligono sono ricchi in nutrienti come acidi grassi polinsaturi omega-3, magnesio, zinco, selenio, vitamine, in particolare B, E, C, D e polifenoli, che possono influenzare l’insorgenza e il decorso di disturbi dell’umore.

Diversi studi hanno evidenziato specifiche carenze di questi nutrienti nei pazienti che soffrono di depressione o che presentano un elevato rischio di incorrere in episodi depressivi.

Un altro dato interessante deriva da uno studio che ha messo a confronto una dieta ad alto carico glicemico con una a basso carico glicemico.

Il carico glicemico è un parametro che valuta l’impatto di un dato alimento sul livello di glucosio nel sangue (glicemia), in base alla tipologia e alla quantità di carboidrati in esso contenuti.

Dallo studio è emerso che i soggetti che avevano seguito una dieta a basso carico glicemico avevano riportato un miglioramento di depressione, ansia, fatica, confusione e tono generale dell’umore, rispetto al gruppo di pazienti che aveva seguito una dieta ad alto carico glicemico.

In che modo il cibo influenza il nostro stato mentale?

A livello fisiologico non sono ancora noti nel dettaglio i meccanismi attraverso i quali la nostra alimentazione possa avere un effetto sui sintomi di ansia e depressione, ma sono state proposte diverse ipotesi plausibili.

Determinati macro e micronutrienti presenti negli alimenti, quali acidi grassi, vitamine, minerali, polifenoli e flavonoidi possono influenzare la produzione e l’attività di neurotrasmettitori come la serotonina, lo stress ossidativo e lo stato di infiammazione, anche, ma non solo, attraverso effetti diretti e indiretti sul Microbiota intestinale.

Gli omega-3

Il nostro cervello è un organo ricco in lipidi, vale a dire grassi. La corretta proporzione tra acidi grassi saturi (SFAs) e acidi grassi polinsaturi (PUFAs), in particolare gli omega-3 DHA (acido docosaesaenoico) ed EPA (acido eicosapentaenoico) e l’omega-6 acido arachidonico, è fondamentale per la funzionalità del tessuto neuronale. 

Un aumento di SFAs, ad esempio, diminuisce la fluidità e la permeabilità delle membrane cellulari e un rapporto sbilanciato tra omega-3 e omega-6 può aumentare l’infiammazione a livello sistemico e neuronale.

La dieta “occidentale” è caratterizzata tipicamente da un apporto eccessivo di acidi grassi saturi e da uno squilibrio nel rapporto tra acidi grassi omega-3 e omega-6 a favore di questi ultimi.

Gli acidi grassi omega-3, in particolare l’EPA, hanno proprietà anti-infiammatorie note e la depressione è caratterizzata da un aumento dello stato di infiammazione dell’organismo. Ricerche sui topi suggeriscono che l’azione anti-infiammatoria degli omega-3 potrebbe essere dovuta al suo effetto sul Microbiota intestinale.

Inoltre, da studi recenti, è emerso che il consumo di acidi grassi omega-3 potrebbe aumentare la produzione di una proteina chiamata BDNF (Brain-Derived Neurotrophic Factor) presente nel cervello, dove svolge un ruolo nel differenziamento, nella crescita e nel mantenimento dei neuroni e questo potrebbe avere un impatto benefico sull’umore.

Dati epidemiologici hanno dimostrato che la supplementazione con omega-3 (1,5-2 gr di EPA al giorno) è efficace nel trattamento della depressione, come supporto alla terapia convenzionale.

Vitamine e oligoelementi

Non c’è da sorprendersi che anche le vitamine siano essenziali per l’attività del sistema nervoso.

In particolare, nei pazienti depressi è ricorrente una carenza di acido folico (vitamina B9) e di vitamina D. Un elevato consumo di vitamina D, in particolare attraverso il pesce, è una caratteristica della dieta mediterranea.

Tra i minerali, lo zinco sembra giocare un ruolo importante nell’insorgenza dei disturbi dell’umore.

Lo zinco è un oligoelemento essenziale coinvolto in diversi processi cellulari, come la risposta immunitaria, la regolazione ormonale e dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Una carenza di zinco potrebbe contribuire all’insorgenza dei sintomi depressivi attraverso l’attivazione di processi infiammatori e modificazioni del recettore NMDA (N-metil-D-aspartato), presente sulla membrana delle cellule nervose e fondamentale per le funzioni neuronali.

Le fibre

Un’altra “variabile” nutrizionale che ha un effetto sui sintomi di ansia e depressione è la fibra, intesa come quantità totale e tipologia di fibra assunta.

Le diete con un elevato contenuto di fibre (27-30 gr al giorno), in particolare da vegetali e cereali integrali, sono associate a una probabilità ridotta di circa il 40% di sviluppare sintomi di depressione, mentre una dieta ricca di zuccheri e cereali raffinati è associata a un’aumentata incidenza di disturbi dell’umore.

I fitochimici

Il mondo vegetale è anche una fonte di polifenoli, composti chimici sintetizzati dalle piante (fitochimici) per proteggerle dai patogeni. I polifenoli aumentano i livelli di serotonina nel cervello, la produzione di BDNF e riducono l’infiammazione e questo potrebbe spiegare in parte il loro effetto positivo sul tono dell’umore.

D’altra parte, i polifenoli agiscono da prebiotici e la loro azione sul sistema nervoso potrebbe essere dovuta anche ai metaboliti secondari che derivano dal loro utilizzo da parte del Microbiota intestinale.

In sintesi quindi…

Una dieta varia e colorata, che includa una quantità elevata di frutta e verdura di stagione, carboidrati complessi, proteine magre, in particolare dal pesce, legumi, semi oleosi, frutta secca, può contribuire al nostro benessere mentale, oltre a essere un importante strumento di prevenzione per svariate malattie.

Mangiamo a colori, mangiamo l’arcobaleno!

Ilena Li Mura, PhD

Biologa Nutrizionista

 


Bibliografia

Feeding melancholic microbes: MyNewGut recommendations on diet and mood.

The association between diet and mood: A systematic review of current literature.

The Role of Nutrition and the Gut-Brain Axis in Psychiatry: A Review of the Literature.

The Role of the Gut Microbiota in Dietary Interventions for Depression and Anxiety.

 

Quando l’umore è una questione di pancia

In questo periodo di clausura forzata, bersagliato da una pioggia incessante di notizie più o meno angoscianti, il nostro organismo sta subendo uno stress psico-fisico molto forte. Si parla senza freni di quarantena, malati, guariti, tamponi, economia allo sfascio, medici eroici e politici allo sbando. Ci sentiamo prigionieri e tristi, impauriti e stressati.
E’ persino l’unico periodo in cui il termine “positivo” ha acquisito globalmente un’accezione a dir poco deprimente. E i casi di depressione o ansia puntualmente potrebbero aumentare, dicono gli esperti.
Tuttavia le buone notizie e le buone soluzioni si possono trovare anche in questo momento così critico: molte di esse si nascondono nella nostra mente, oltre che nel nostro intestino.

La fondamentale relazione tra intestino e cervello

Il nostro apparato digerente e la nostra mente comunicano costantemente in un’autostrada di segnali che viene definita asse intestino-cervello. Il suo funzionamento non è ancora del tutto chiaro ma è noto che i batteri intestinali producono moltissime molecole simili ad ormoni o neurotrasmettitori, ovvero i messaggi preferiti delle cellule del sistema nervoso. Queste molecole escono dall’intestino e, come tante e-mail, vengono ricevute dal sistema nervoso addossato all’intestino (enterico) che le legge e ne fa giungere la loro interpretazione anche al cervello. Di rimando il cervello tramite uno dei suoi famosi nervi, il nervo Vago, comunica con l’intestino ed i suoi batteri per modificare o confermare una data condizione. Anche il sistema immunitario sembra fondamentale in questa comunicazione poiché trasporta numerosi messaggi dall’intestino al cervello.

Mai avuto fenomeni intestinali (diarrea, gastrite) in concomitanza di eventi particolarmente stressanti, come esami, interrogazioni, esibizioni, …? Ecco, questo è un tipico esempio di comunicazione intestino-cervello.

Patologie mentali e microbiota

La relazione tra microbiota intestinale e cervello diventa ancora più profonda se si comincia a parlare di condizioni patologiche come depressione e ansia. E’ stato infatti rilevato un collegamento molto forte tra disbiosi, infiammazione e queste patologie mentali. Normalmente tali disturbi tendono a presentarsi in persone che hanno una costante alta presenza di segnali infiammatori in circolo. Questi segnali mantengono attivo un particolare circuito nervoso che coordina la risposta allo stress, il che è tipico della condizione di depressione e ansia patologiche. Un po’ come accade quando si aggiunge continuamente legna sul fuoco: sarà difficile che il falò si spenga, anzi potrebbe anche divampare.

Per chi ormai ha familiarità con i batteri intestinali sa che, quando il microbiota non è in equilibrio, l’intero organismo ne può risentire. Alcuni batteri più di altri, come ad esempio le Enterobacteriaceae, sono presenti normalmente in scarsa abbondanza ma se aumentassero vistosamente sarebbero più inclini a generare uno stato infiammatorio. La continua sollecitazione dei tessuti intestinali con molecole infiammatorie può arrivare a danneggiare il tessuto stesso: l’infiammazione, da piccolo falò concentrato nell’intestino, può divampare a tutto l’organismo. Non è un caso se la presenza di infezioni intestinali sia spesso concomitante con l’insorgenza di patologie come l’ansia.

La dieta per il benessere mentale

Noi mediterranei siamo fortunati: la nostra dieta ha un altissimo potere antinfiammatorio e antiossidante (vedi articolo precedente). Probabilmente non è un caso se i paesi maggiormente colpiti da patologie come depressione e ansia sono quelli che non seguono una dieta come la nostra. La tipica assunzione di fibre, grani, alimenti fermentati, pesce e la scarsa necessità di carni rosse e zuccheri raffinati ci rende meno propensi a sviluppare patologie infiammatorie sistemiche come diabete, malattie cardiache e, nondimeno, ansia e depressione. Il seguente schema suggerisce quali alimenti della dieta mediterranea sono indicati in tal senso.

Alimenti consigliati per una salute mentale ottimale.

Le fibre, immancabili, hanno un altissimo valore prebiotico, ovvero fungono da carburante per la crescita di batteri benefici come i Bifidobatteri. Questi particolari batteri hanno una forte attività antinfiammatoria e mostrano inoltre una comprovata attività benefica per la mente, antistress e antidepressiva. Signori e signore siamo di fronte ai cosiddetti psicobiotici, ovvero batteri che hanno una valenza terapeutica in casi di patologie mentali. Ma di questi ne parleremo più avanti.

Oltre alle fibre, l’assunzione di pesce come tonno, sardine, salmone, è fondamentale per un’attività mentale in salute, come rilevato in moltissimi studi di correlazione. Il componente d’interesse è l’omega-3, e principalmente l’EPA (acido eicosapentaenoico), un acido grasso presente nell’olio di pesce che sopprime la risposta immunitaria infiammatoria. 

Morale della favola

Ancora una volta la relazione tra dieta, microbiota e salute viene sottolineata anche in campi inaspettati come la salute psichica. Detto ciò, a maggior ragione in questo periodo, vogliamoci bene: facciamo una buona spesa al supermercato e diamo una mano al nostro microbiota per mantenerci in salute e felici. O per lo meno positivi. Ma nel senso migliore del termine.

Alla prossima puntata dove approfondiremo quali alimenti preferire per un buon benessere psico-fisico.

Eleonora Sattin, PhD
Responsabile servizio Microbioma Italiano BMR Genomics


Dinan TG et al., Feeding melancholic microbes: MyNewGut recommendations on diet and mood, Clinical Nutrition.

Il Microbiota e la fabbrica di vitamine

Mi ha sempre affascinato l’origine e la storia delle parole, quella che in linguistica si chiama etimologia.

Dentro a una parola si può racchiudere la sua essenza.

Constato spesso con stupore come poche lettere, sapientemente scelte, riescano a trasmettere il senso profondo di un concetto.

Oggi parliamo di vitamine e sono certa che ciascuno di voi abbia in mente qualcosa di fondamentale, di vitale.

Lo dice la parola stessa, ci avete mai fatto caso?

Vitamina: “ammina di vita, ammina vitale”

Le vitamine sono micronutrienti vitali in quanto sono indispensabili per il nostro organismo, stati di carenza possono causare diversi disturbi o malattie e comportano sintomi specifici, a seconda del tipo di vitamina.

Sono definite micronutrienti poichè per i nostri fabbisogni sono necessarie in piccole quantità (milligrammi o microgrammi), sebbene svolgano funzioni molto importanti per l’organismo, intervenendo nella produzione di enzimi, ormoni e altre sostanze che aiutano a regolare la crescita, l’attività, lo sviluppo e il funzionamento dei sistemi immunitario e riproduttivo.

Chi produce le vitamine?

L’organismo umano non è in grado di produrre autonomamente la maggior parte delle vitamine che, di conseguenza, devono essere introdotte dall’esterno, principalmente con gli alimenti. Uniche eccezioni sono la vitamina D, che può essere sintetizzata a partire dal colesterolo se la pelle è esposta ai raggi UV-B della luce solare, e la niacina (vitamina B3 o PP) che può essere sintetizzata a partire dall’amminoacido triptofano.

Gli alimenti sono la fonte principale di vitamine, tuttavia anche il Microbiota intestinale può dare il suo contributo, non c’è da stupirsi vero?

Alcune specie batteriche probiotiche, in particolare bifidobatteri (es Bifidobacterium adolescentis) e batteri lattici (es Lactococcus lactis, Lactobacillus gasseri, Lactobacillus reuteri, Lactobacillus rhamnosus), sono in grado di sintetizzare la vitamina K e svariate vitamine del gruppo B, quali cobalamina (vitamina B12), acido folico (vitamina B9), tiamina (vitamina B1), piridossina (vitamina B6), riboflavina (vitamina B2).

La Vitamina “anti-emorragica”

La vitamina K comprende una famiglia di vitamine con un ruolo importantissimo nel processo di coagulazione del sangue ed esiste in natura principalmente in due forme: K1 o fillochinone, presente negli alimenti di origine vegetale, in particolare nelle verdure a foglia verde, e K2 o menachinone, presente negli alimenti di origine animale e prodotta dal microbiota intestinale a partire dal fillochinone.

Recenti evidenze dalla letteratura scientifica suggeriscono che alcuni menachinoni prodotti dai batteri possano avere caratteristiche uniche, tra cui proprietà anti-infiammatorie, e biodisponibilità e bioattività superiori rispetto ai fillochinoni.

Di conseguenza, anche basse quantità di vitamina K2 prodotta dai batteri intestinali potrebbero avere un impatto significativo sulla salute dell’ospite.

Le Vitamine “energetiche”

Se la vitamina K può essere definita la vitamina “anti-emorragica”, le vitamine del gruppo B sono le “vitamine energetiche”, sebbene intervengano anche in molti altri processi, come lo sviluppo e le funzioni delle cellule del sistema immunitario.

La maggior parte delle vitamine del gruppo B è coinvolta nel metabolismo energetico delle cellule, cioè in quell’insieme di reazioni biochimiche che permettono alle cellule di ricavare energia dagli alimenti, immagazzinandola sotto forma di ATP (adenosin-tri-fosfato), la molecola che funge da “moneta di scambio” dell’energia a livello cellulare.

Ciascuna di queste reazioni metaboliche richiede la presenza di un enzima specifico, una proteina che agisce da catalizzatore, così che la reazione possa avvenire a una velocità compatibile con la vita. Per svolgere la loro funzione, alcuni enzimi necessitano della presenza di altre molecole, i cosiddetti cofattori, senza cui rimarrebbero in uno stato inattivo.

Le vitamine del gruppo B agiscono come cofattori enzimatici nelle reazioni metaboliche coinvolte nella produzione di energia.

I batteri commensali dell’intestino possono influenzare il metabolismo energetico del loro ospite attraverso la produzione di metaboliti “energetici”, tra cui le vitamine del gruppo B.

Più energia quindi meno fatica?

La relazione tra microbiota intestinale, i suoi metaboliti e la fatica non è del tutto chiara.

Tuttavia, alcuni studi recenti condotti sulla sindrome da fatica cronica hanno suggerito un possibile ruolo della disbiosi intestinale nella patogenesi di tale disturbo.

La sindrome da fatica cronica è caratterizzata dalla persistenza di sintomi quali affaticamento, dolore muscolare, mal di testa, disturbi gastrointestinali, malessere post-sforzo e la sua eziologia non è ancora nota.

L’analisi del Microbiota intestinale nei pazienti affetti da questo disturbo ha rivelato, rispetto ai soggetti sani, una minore diversità tra specie batteriche, un aumento delle specie pro-infiammatorie, quali Proteobatteri e Prevotella, e una diminuzione delle specie anti-infiammatorie, in particolare Faecalibacterium prausnitzii e Bifidobatteri.

Approcci terapeutici volti a modificare la composizione del microbiota intestinale potrebbero essere uno strumento per controllare lo sviluppo e/o la progressione della sindrome.

Un intestino sano può darci una vera e propria carica di energia?

Sembra proprio di si!

Ilena Li Mura, PhD

Biologa Nutrizionista


Beneficial effects on host energy metabolism of short-chain fatty acids and vitamins produced by commensal and probiotic bacteria.

Biosynthesis of Vitamins by Probiotic Bacteria.

Reduced diversity and altered composition of the gut microbiome in individuals with myalgic encephalomyelitis/chronic fatigue syndrome.

Fecal concentrations of bacterially derived vitamin K forms are associated with gut microbiota composition but not plasma or fecal cytokine concentrations in healthy adults.

Super vitamina C e super microbiota

Il mio professore di chimica inorganica del primo anno di università era un signore anziano ma pieno di vita e di storielle interessanti. Una delle sue preferite era quella sulla vitamina C, ovvero, secondo lui, una panacea per tutti i mali: raffreddore, influenza, stanchezza, mal di pancia e chi più ne ha più ne metta. Raccontava che a casa ne aveva scorte illimitate e ne assumeva ogni giorno. A noi studenti sembrava un’esagerazione ma a guardare la sua vitalità, lo era veramente?

Cos’è la vitamina C?

La vitamina C, o acido ascorbico, è un composto che nel nostro organismo svolge una moltitudine di funzioni importanti ma che dobbiamo assumere con l’alimentazione poiché non siamo in grado di produrlo. Possiamo trovarlo in molti alimenti freschi come arance, fragole, mandarini, kiwi, limoni, spinaci, broccoli, pomodori e peperoni. Purtroppo essendo sensibile al calore, tende a degradarsi in fase di cottura, pertanto gli alimenti che lo contengono andrebbero consumati crudi o poco cotti. 

Vitamina C come antiossidante

Perché dovrebbe interessarci così tanto? In questo periodo di influenze e raffreddori l’associazione mentale con la Vitamina C viene quasi spontanea, in quanto è molto nota la sua attività antiossidante e stimolante del sistema immunitario. Normalmente la vitamina C funge da sentinella che imprigiona molecole reattive come i famosi radicali dell’ossigeno che aumentano la quantità di ossigeno in aree dove non dovrebbe essere molto concentrato. Se i radicali sono liberi e felici provocano reazioni a catena che destabilizzano le strutture biologiche, come le pareti cellulari, le proteine, i grassi e così via. L’acido ascorbico li ammanetta prima che combinino guai: in questo modo riesce a mantenere un livello di ossidazione dei tessuti molto basso e previene la loro degradazione. Questo è il tipico lavoro di un antiossidante.

Fin qui tutto bene, ma non è l’unico composto che ha queste abilità. Quindi? Fino a qualche anno fa i ricercatori hanno studiato la Vitamina C senza considerare la sua interazione con uno dei tessuti intestinali più attivi, ovvero il microbiota. Di conseguenza è da poco tempo che abbiamo cominciato a capire le profonde potenzialità di questo composto nei confronti del nostro intestino.

Perchè gli antiossidanti nell’intestino?

Condizioni di infiammazione intestinale e disbiosi sono spesso accompagnate da uno stato di ossidazione sbilanciato. In questi casi il microbiota stesso produce molecole che favoriscono l’infiammazione che a sua volta induce le cellule intestinali a emettere segnali che aumentano il livello di ossidazione del tessuto. Un circolo vizioso che a lungo andare può indebolire la barriera intestinale e può portare l’infiammazione a tutto l’organismo, condizione che viene definita malattia metabolica. La condizione di barriera debole (leaky gut) infatti permette alle molecole dannose di spostarsi dal lume intestinale all’intero organismo, scatenando una reazione infiammatoria che da localizzata può diventare anche sistemica. Una barriera intestinale poco solida è infatti un elemento che hanno in comune moltissime patologie che interessano l’intero organismo come diabete, malattie autoimmuni, obesità, etc. 

Le potenzialità inattese della vitamina C

Alcuni ricercatori hanno studiato gli effetti della supplementazione della Vitamina C in modelli di disbiosi intestinale e scarsa attività anti-ossidante e hanno notato che la quantità di ossigeno nel tessuto e il rapporto tra batteri patogeni e benefici miglioravano. Questi effetti positivi erano accompagnati anche da una ricostituzione della funzionalità della barriera intestinale e addirittura da una riduzione dell’infiammazione sistemica. In altri campi, alcuni studi hanno evidenziato inoltre che la vitamina C iniettata in vena quasi dimezza la mortalità nei casi di risposta esagerata e dannosa dell’organismo ad un’infezione (condizione definita sepsi). Questo avviene perché la vitamina C attenua lo stress ossidativo ed immunologico, migliora la risposta dei vasi sanguigni, modula le cellule immunitarie.

Nutrirsi bene, antiossidarsi meglio

Insomma, era noto che la vitamina C possedesse molteplici proprietà benefiche ma non l’avremmo mai detto che potesse essere così importante anche per il nostro intestino oltre che per l’intero organismo. E stiamo parlando solo di una delle migliaia di molecole contenute negli alimenti: quante altre proprietà hanno i diversi macro/micronutrienti che assumiamo con il cibo? Di conseguenza quanto è importante che gli alimenti che mangiamo contengano tutte queste molecole benefiche? In casi di carenza si può ricorrere agli integratori ma normalmente se la nostra alimentazione è ricca in cibi freschi, bilanciata e variegata, possiamo fornire al nostro intestino tutto il potere antiossidante che gli serve. La nozione interessante e innovativa che emerge è che in casi di patologie particolari, un’integrazione controllata di vitamina C potrebbe rivelarsi profondamente utile.

Probabilmente il mio professore di chimica era un po’ esagerato a concentrarsi solo su un tipo di nutriente ma sui benefici della vitamina C sicuramente ci aveva visto lungo.

Alla prossima!

Eleonora Sattin, PhD


The relationship between vitamin C status, the gut-liver axis, and metabolic syndrome

The Emerging Role of Vitamin C as a Treatment for Sepsis

Il Microbiota ci protegge dall’influenza?

 

Secondo voi il microbiota che abita pacificamente nel nostro corpo permetterebbe a cuor leggero che dei microrganismi esterni espugnassero la sua casa e la distruggessero? Esattamente, no.
Infatti i patogeni esterni come batteri, virus, funghi o parassiti, per far ammalare il nostro corpo devono prima affrontare e battere le solide difese del nostro microbiota commensale, oltre che tutte le altre barriere del nostro corpo.
L’intestino è di fatto una grandiosa via d’accesso al nostro organismo ma è popolato da fiorenti comunità microbiche che occupano come dei soldati le porte d’entrata. Questa armata microbica favorisce il cosiddetto “effetto scudo”, una barriera nei confronti dei patogeni malintenzionati e dipende da complesse interazioni tra i tipi di microrganismi presenti (specie, abbondanza e diversità), il sistema immunitario e la struttura intestinale

Il microbiota ci protegge

Come fa il microbiota a proteggerci? Le modalità sono diverse e iniziano dalla vera e propria occupazione fisica del “suolo intestinale” che non permette ai patogeni di attecchire e riprodursi. Altre strategie spaziano dalla produzione di molecole antimicrobiche all’allenamento militare delle cellule del sistema immunitario.
In questo periodo si parla molto di virus dell’influenza. I virus che tentano l’arrembaggio vengono bloccati in quanto spesso i batteri si legano ad essi e li immobilizzano, oppure ne deformano la struttura inibendone la replicazione. In altri casi sono gli stessi batteri intestinali o i loro metaboliti che attivano il sistema immunitario e lo guidano a rilevare e combattere gli intrusi. Batteri benefici quali Lattobacilli e Bifidobatteri, oppure le specie Enterococcus faecium, Staphylococcus epidermidis e Clostridium orbiscindens lavorano proprio in tal senso.

Il microbiota ci protegge quando è sano

Certo è che questo accade nel momento in cui il microbiota è in eubiosi. La presenza di un disequilibrio intestinale, ovvero di alcuni batteri opportunisti, può al contrario favorire l’infezione e lo sviluppo di una patologia. Non è un caso se gli anziani sono molto più sensibili alle infezioni, in quanto con l’età anche il microbiota tende a diventare sbilanciato o disbiotico. E non si parla solo di batteri intestinali: specie isolate nel tratto naso-faringeo come Staphylococcus aureus, Pseudomonas sp., Streptococcus pneumonia, Haemophilus influenzae e Streptococcus pyogenes, sono state associate con un tasso di mortalità più elevato in adulti e bambini con influenza.

Come aiutare il microbiota ad aiutarci

Come proteggersi? Aiutando il proprio microbiota ad essere più sano e bilanciato. E lo strumento più forte che abbiamo a disposizione per tale scopo è la dieta. Gli alimenti che non assorbiamo, infatti, finiscono nel colon e influenzano le popolazioni microbiche e le molecole da loro prodotte, le quali a loro volta possono contribuire alla resistenza ai patogeni modulando l’integrità della barriera intestinale. Ad esempio una dieta bilanciata in grassi saturi, poli- e monoinsaturi, fibre, proteine e limitata in carboidrati semplici ed altre molecole può aiutare a instaurare l’omeostasi intestinale proteggendola dagli attacchi esterni. Come? Lo vedremo nelle prossime puntate.

A presto!

 

Eleonora Sattin, PhD
Responsabile Servizio Microbioma Italiano di BMR Genomics


Diet-Microbe-Host Interactions That Affect Gut Mucosal Integrity and Infection Resistance

Virus and microbiota relationships in humans and other mammals: An evolutionary view

The Commensal Microbiota and Viral Infection: A Comprehensive Review

Una mela al giorno toglie il medico di torno?

Non sempre e non a tutti…

E’ quanto ci siamo detti nell’ultimo articolo del nostro blog, dove abbiamo iniziato a conoscere i FODMAPs (Fermentable Oligosaccharides, Di- and Monosaccharides, And Polyols) e alcuni degli alimenti che li contengono in maggiore quantità. 

Abbiamo anche visto che i FODMAPs sono dei prebiotici che possono promuovere il benessere del nostro intestino, andando a nutrire determinate specie batteriche che vi “abitano”. Tuttavia, alcune persone risultano particolarmente sensibili a questi composti, riportando svariati disturbi a livello intestinale in seguito all’ingestione di alimenti che ne sono particolarmente ricchi.

Ma perchè accade questo?

Provate a pensare, quale potrebbe essere la conseguenza diretta del lieto banchetto dei batteri con i FODMAPs? Ma certo! La loro rapida fermentazione, lo dice anche il nome, e questa porta alla produzione di gas che, se eccessiva, può causare gonfiore, flatulenza, diarrea e/o costipazione.

A ciò si aggiunge il fatto, meno ovvio, che i FODMAPs (in particolare il fruttosio, il lattosio e i polioli) sono molecole di piccole dimensioni e, durante il tempo in cui permangono nel nostro intestino tenue, richiamano acqua per osmosi. Questo effetto determina la distensione dell’intestino che, nei soggetti più sensibili, viene avvertita come dolore addominale e gonfiore.

Piacevole? Non proprio.

Lo sanno bene i pazienti a cui è stata diagnosticata la cosiddetta Sindrome da Intestino Irritabile (IBS).

Proprio per aiutare questi pazienti nella gestione dei disturbi intestinali, i ricercatori della Monash University a Melbourne, in Australia, hanno sviluppato la cosiddetta Low FODMAPs diet (LFD), ovvero un regime alimentare controllato che prevede un’iniziale riduzione dell’assunzione di cibi ad alto contenuto di FODMAPs, sostituiti da alternative con un contenuto più basso, e una loro successiva re-introduzione graduale. Lo scopo di questa dieta è quello di ridurre i sintomi che i pazienti con IBS avvertono, ma soprattutto individuare quei cibi che li scatenano e la soglia individuale di tolleranza, molto variabile tra persone diverse.

L’approccio LFD attualmente risulta efficace nel miglioramento dei sintomi intestinali e della qualità della vita nel 52–86% dei pazienti che soffrono di IBS e si sta valutando la sua potenziale applicazione anche nel trattamento della Sensibilità al Glutine Non Celiaca (NCGS) e in altre sindromi con sintomi gastro-intestinali e non solo.

Ma possiamo intraprendere da soli una dieta di questo tipo?

La risposta è no.

Una dieta Low FODMAPs va intrapresa sempre e solo sotto la guida di un professionista del settore, per un periodo di tempo limitato ed evitando l’esclusione di intere categorie di alimenti, per non incorrere in carenze nutrizionali importanti e compromettere la salute del nostro intestino.

E i casi che non rispondono a questa dieta? Diversi studi dimostrano che ancora una volta il microbiota intestinale ha un ruolo nel determinare l’efficacia di questo approccio.

Non c’è da stupirsi, vero?

Noi di Microbioma Italiano lo sappiamo bene e per questo motivo abbiamo integrato il nostro nuovo report Evo con l’analisi del potenziale del microbiota nella fermentazione dei FODMAPs. Il risultato del test fornisce un’indicazione su quale classe di alimenti assumere con maggiore attenzione poichè potrebbe risvegliare la voracità dei batteri intestinali.

Ho sperimentato questa analisi anche su me stessa e nei prossimi mesi vi racconterò come è andata.

A presto per parlare ancora di microbiota e nutrizione!

Ilena Li Mura, PhD

 


 

Low-FODMAP Diet for Irritable Bowel Syndrome: What We Know and What We Have Yet to Learn. Liu J et al 2020; Annual Review of Medicine.
Low FODMAP Diet: Evidence, Doubts, and Hopes. Bellini et al 2020; Nutrients.