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Psoriasi: lo squilibrio dell’asse intestino-pelle

“Puliti dentro, belli fuori.” recita una nota pubblicità. Probabilmente gli autori di questo slogan non potevano immaginare che la scienza del microbiota avrebbe dato loro ragione, ovviamente mutatis mutandis.

C’è un forte legame tra dentro e fuori

Il microbiota intestinale non è un tessuto a sé stante che controlla solo la funzionalità di se stesso e degli organi in cui vive ma influenza anche altre parti del corpo umano. Infatti lo abbiamo visto interagire con il cervello (asse intestino-cervello), oppure intervenire in patologie sistemiche come il diabete: perché non potrebbe influire anche su uno dei tessuti più visibili del nostro corpo ovvero la pelle?

Eppure sembrerebbero così distanti.. In realtà non è così: il microbiota intestinale produce svariate molecole segnale che intervengono ad ampio spettro sul benessere della pelle. Infatti i nostri abitanti intestinali regolano, tra le altre cose, anche il sistema immunitario sottocutaneo, la proliferazione delle cellule della pelle (i cheratinociti), e la rigenerazione cellulare e tissutale ad esempio dopo una ferita. Pertanto, in un certo senso, se siamo “belli dentro” (= in eubiosi o equilibrio intestinale) molto probabilmente siamo anche “belli fuori” (= in omeostasi tissutale, la pelle funziona correttamente). In altre parole siamo di fronte all’equilibrio dell’asse intestino-pelle.

E se l’equilibrio si rompe?

Molte patologie sistemiche o autoimmuni presentano uno stato di squilibrio intestinale che si auto alimenta in un circolo vizioso di disbiosi, infiammazione e distruzione della barriera intestinale in cui causa ed effetto sono spesso sovrapposte. E’ la barriera intestinale danneggiata che induce infiammazione e disbiosi o viceversa? Un po’ entrambe. Ad ogni modo tale condizione favorisce il passaggio di molecole infiammatorie batteriche nel sangue che, nel suo percorso, arriva anche al derma.

Nelle persone predisposte, questo accumulo di segnali “intestinali” induce le cellule immunitarie sottocutanee a produrre molecole infiammatorie che attivano i cheratinociti a proliferare esageratamente. Questo causa ispessimento della pelle che può rompersi per motivi meccanici. Il microbiota della pelle a questo punto diventa fondamentale perché la sua composizione può influenzare positivamente o negativamente la guarigione della lesione. 

La psoriasi è una patologia da “esposoma”

Quanto descritto sopra è il tipico scenario che accade nella psoriasi, una dermatosi cronica infiammatoria mediata dal sistema immunitario che dipende da moltissimi fattori interni ed esterni (esposoma). Genetica, stile di vita, alcuni medicinali, obesità, fumo, infezioni, stress, sembrano essere fortemente correlati all’insorgenza della patologia. Si presenta con chiazze di pelle ispessita e soggetta ad una forte desquamazione, fino a provocare lesioni cutanee.

In molti casi la psoriasi è diagnosticata insieme ad altre patologie che sono anch’esse collegate con una modulazione sbilanciata del sistema immunitario, un livello esagerato di infiammazione sistemica e disbiosi con danno alla barriera intestinale. Infatti ad esempio il 7%-11% di persone con IBD ha diagnosi di psoriasi e spesso obesità, ipertensione o diabete di tipo 2 dimostrano comorbidità con la psoriasi.

In tutte queste patologie il tipo di disbiosi è un po’ diverso e spesso non sempre chiaro tra i diversi studi, tuttavia ciò che è noto è in tali patologie alcuni batteri probiotici e benefici tendono a diminuire. Uno su tutti il Faecalibacterium prausnitzii, che produce molecole antinfiammatorie e regolatorie per il sistema immunitario, è tipicamente impoverito.

Curare l’intestino per curare la pelle?

Antibiotici, probiotici, trapianto fecale sono in test per migliorare la patologia utilizzando come target l’intestino. Ad esempio, diversi studi hanno testato l’efficacia di alcuni probiotici sul riequilibrio dell’asse intestino-pelle, come il Bifidobacterium infantis 35,624 e il Lactobacillus pentosus GMNL-77 che hanno ridotto i livelli di infiammazione sistemica e attenuato i sintomi della psoriasi. Nondimeno il trapianto fecale, come per l’IBD, è una strategia che sembra molto promettente per abbassare l’infiammazione sistemica.

E che dire dell’alimentazione? Sappiamo che è uno degli strumenti più comuni a disposizione per contrastare la disbiosi e l’infiammazione. Non a caso, tra le altre, la dieta mediterranea ricca in antiossidanti, omega-3, vitamine ed oligoelementi è un ottimo coadiuvante nella terapia di una patologia infiammatoria sistemica come la psoriasi.

Forse un po’ lo potevamo immaginare?! 😉

Alla prossima!

Eleonora Sattin, PhD


Atiya Rungjang et al. (2020). Skin and Gut Microbiota in Psoriasis: A Systematic Review

Giovanni Damiani et al. (2020). Gut microbiota and nutrient interactions with skin in psoriasis: A comprehensive review of animal and human studies. World J Clin Cases

Mariusz Sikora et al (2020). Gut Microbiome in Psoriasis: An Updated Review. Pathogens

Dalal I. Alesa et al. (2019). The role of gut microbiome in the pathogenesis of psoriasis and the therapeutic effects of probiotics. J Family Med Prim Care.

Hsu et al. (2020). Role of skin and gut microbiota in the pathogenesis of psoriasis, an inflammatory skin disease. Medicine in Microecology

Microbiota e Diabete

In vista della giornata mondiale del diabete, il 14 novembre 2020, noi di Microbioma Italiano abbiamo voluto fare un piccolo excursus sul forte legame tra microbiota intestinale e questa patologia sempre più comune. Un legame da cui è possibile trarre molti insegnamenti e benefici.

Il diabete è una patologia che può insorgere nei bambini e negli adolescenti per motivi genetici, virali o di stress (si parla allora di tipo 1). Tuttavia nel 90% dei casi può emergere anche in un soggetto adulto a causa di uno stile di vita sedentario, obesità, presenza di grasso viscerale, dieta povera di fibre e ricca in grassi saturi e zuccheri. La predisposizione genetica deve essere presente ma abitudini sbagliate sono il trigger principale del diabete di tipo 2.

Cosa vuol dire diabete?

Essere diabetici implica non essere in grado di gestire l’assunzione di zuccheri semplici o complessi. Questo accade perché l’insulina, l’ormone deputato alla gestione del metabolismo del glucosio, è carente oppure le cellule e i tessuti su cui agisce ne sono insensibili (insulino-resistenza). Solitamente nel diabete di tipo 2 c’è una combinazione di entrambe le cause. In queste condizioni, si ha un accumulo di glucosio nel sangue (iperglicemia) che, a cascata, provoca una diminuzione dell’assorbimento del glucosio nei muscoli e un aumento degli acidi grassi in circolo. Questi ultimi sembrano essere collegati all’aumento della secrezione di molecole infiammatorie e al danno a molteplici organi e tessuti. Di fatto nel diabete l’infiammazione è la causa principale delle complicazioni che possono insorgere nel lungo periodo, come patologie cardiovascolari, necrosi tissutale, perdita della vista, insufficienza renale etc. 

Microbiota e diabete

Quando si parla di infiammazione sistemica non si può non parlare di microbiota. Non è un caso se moltissimi studi abbiano rilevato un microbiota caratteristico della patologia diabetica. Il microbiota infatti modula l’infiammazione, interagisce con i nutrienti, influenza la permeabilità intestinale, il metabolismo del glucosio e lipidico, la sensibilità all’insulina e il bilancio energetico del corpo.

Diversi microbi intestinali possono promuovere un’infiammazione di basso grado o endotossiemia, tipica del diabete di tipo 2, e possono scalzare prepotentemente i batteri benefici. Batteri come Bifidobacterium, Bacteroides, Faecalibacterium, Akkermansia e Roseburia sono normalmente sottorappresentati nel microbiota dei diabetici mentre Ruminococcus, Fusobacterium e Blautia tendono ad aumentare. Il primo gruppo di batteri è normalmente considerato antinfiammatorio, produttore di butirrato e promotore di una bassa permeabilità intestinale. Inoltre, può avere attività inibitoria nei confronti di enzimi che degradano i carboidrati complessi, riducendo l’iperglicemia postprandiale. Al contrario, il secondo gruppo tende a favorire la produzione di molecole infiammatorie e a promuovere uno stato di alterata permeabilità intestinale.

Microbiota e farmaci 

Il microbiota residente può positivamente o negativamente influenzare l’attività e l’efficacia  dei farmaci utilizzati per curare il diabete. Non solo, alcuni batteri probiotici sono in sperimentazione per favorire la modifica del microbiota in senso “positivo”, per abbassare il grado di infiammazione sistemica e ristabilire il metabolismo normale del glucosio. B. lactis, B. animalis, L. plantarum, L. sakei, L. rhamnosus, sono tutti probiotici che hanno dimostrato diverse abilità nel management della patologia.

Prevenire è meglio

Ad ogni modo, sapendo che il diabete di tipo 2 è una patologia che dipende molto dalle nostre scelte, è certamente fondamentale prendere le decisioni giuste per quanto riguarda stile di vita e alimentazione. Eliminare la sedentarietà ed abbracciare uno stile di vita attivo sfavoriscono l’insulino-resistenza. Assumere alimenti ricchi di fibre e abbandonare la dieta tipicamente occidentale, che sta provocando un incremento di patologie come il diabete, sono sicuramente scelte positive per una saggia prevenzione. 

Anche monitorare il microbiota può essere uno strumento utile per verificare lo stato di disbiosi ed infiammazione sistemica. L’analisi Microbioma Italiano EVO può infatti in tal senso supportare lo specialista, anche nella definizione di una strategia nutrizionale ed integrativa ad hoc

Alla prossima!

Eleonora Sattin, PhD


Gurung et al (2020) Role of gut microbiota in type 2 diabetes pathophysiology, The Lancet

Wanping Aw and Shinji Fukuda (2018) Understanding the role of the gut ecosystem in diabetes mellitus. J Diabetes Investig

https://www.epicentro.iss.it/diabete/

Intolleranza al lattosio, microbiota e analisi EVO di Microbioma Italiano.

Nell’ultimo articolo del nostro blog abbiamo parlato della relazione tra intolleranza al lattosio e microbiota.

Ma cosa può dirci al riguardo l’analisi EVO di Microbioma Italiano?

Lo vediamo discutendo il case study di una partecipante al progetto Microbioma Italiano.

I sintomi

Come accade spesso in questi casi, anche per la nostra amica i primi sintomi tipici dell’intolleranza al lattosio da ipolattasia (perdita di attività dell’enzima lattasi) si sono manifestati apparentemente all’improvviso, perchè?

Perchè, ricordiamolo, la soglia di tolleranza al lattosio è individuale.

La quantità di lattosio ingerito in grado di indurre sintomi varia mediamente da 12 a 18 grammi al giorno.

Questo significa che quantità basse di lattosio, ad esempio un paio di caffè macchiati con latte, uno yogurt, formaggi stagionati, piccole quantità di formaggi freschi, sono di norma ben tollerate anche da chi malassorbe il lattosio.

Quando la propria soglia di tolleranza viene superata, compaiono i sintomi dell’intolleranza: dolore addominale, gonfiore, flatulenza, a volte diarrea, nausea e vomito.

Questo è esattamento quello che il nostro case study aveva iniziato a notare su se stessa.

Genetica

Anche la genetica ha un ruolo nel determinare l’intolleranza al lattosio.

In circa il 65-75% della popolazione umana, dopo lo svezzamento, l’espressione del gene che codifica per la lattasi viene down-regolata, che significa che il gene viene “spento” e la lattasi non viene più prodotta.

Questa condizione è la più comune.

Tuttavia, alcuni soggetti, più frequentemente in Europa e in alcune popolazioni africane, mediorientali e dell’Asia meridionale, presentano delle particolari varianti genetiche, chiamate polimorfismi, frutto di mutazioni selezionate positivamente nel corso dell’evoluzione. Tali varianti determinano la persistenza della lattasi anche in età adulta. In questi casi, infatti, il gene che codifica l’enzima lattasi non viene “spento” ma continua a essere attivo.

Secondo voi la nostra amica possiede qualcuna di queste varianti genetiche?

La risposta è no. Effettuando un test genetico, infatti, ha scoperto di avere un genotipo che in genetica si definisce wild-type, letteralmente selvatico, cioè la versione di un gene più comune in natura, responsabile dell’ipolattasia in età adulta.

Microbiota

Sarete curiosi di conoscere, a questo punto, la composizione del microbiota intestinale del nostro case study.

Analizziamo alcuni dettagli del report EVO relativo all’analisi del suo microbioma intestinale.

Il grafico a sinistra rappresenta la stima del potenziale fermentativo del microbiota intestinale, rispetto a determinati composti, tra cui il lattosio.

La freccia rossa indica che l’efficienza del microbiota intestinale nella fermentazione del lattosio è in eccesso, determinando una elevata produzione di gas, flatulenza, costipazione, diarrea, distensione a livello della parete intestinale, con conseguente dolore addominale, nei soggetti più sensibili.

In che modo questa informazione può essere utile?

Un microbiota di questo tipo può abbassare la soglia individuale di tolleranza del lattosio, suggerendo di porre una maggiore attenzione all’assunzione contemporanea di alimenti contenenti elevate quantità di lattosio.

D’altra parte, però, ricordiamo che il microbiota è un ecosistema estremamente resiliente, con una elevata capacità di adattarsi in maniera positiva a un determinato ambiente.

Lo vediamo nella tabella a destra.

Il malassorbimento del lattosio ha determinato la selezione di Bifidobatteri, che utilizzano il lattosio nel loro metabolismo e producono una elevata quantità di acidi grassi a catena corta, dalle note proprietà anti-infiammatorie e immunomodulanti.

Take-home message

Cosa ci portiamo a casa?

  • E’ fondamentale ascoltarsi e ascoltare il proprio corpo, ponendo attenzione al cibo di cui ci nutriamo e ai sintomi che lo accompagnano.
  • Se sospettiamo di avere un’intolleranza al lattosio, non dobbiamo necessariamente eliminare del tutto il latte e i derivati, preziose fonti di calcio, ma possiamo provare a capire qual è la nostra soglia di tolleranza individuale.
  • Un microbiota in equilibrio, con una buona rappresentanza di batteri benefici, quali i Bifidobatteri, può contribuire a tenere sotto controllo un’eventuale infiammazione e a produrre composti benefici per l’intestino, anche in situazioni di intolleranza.

Il report EVO di Microbioma Italiano e la guida di un nutrizionista possono rivelarsi molto utili in questi casi.

E tu, sei curioso di scoprire l’effetto del lattosio sul tuo microbiota?

Visita il nostro sito per conoscere come effettuare il test!

Alla prossima!

Ilena Li Mura, PhD

Biologa Nutrizionista


Bibliografia

WGO Practice Guidelines – Diet and the Gut

 

Intolleranza al lattosio: un mix di genetica e microbioma

Può capitare, quando non si è più tanto piccoli, che una mattina ci si svegli, si faccia colazione con la consueta tazza di latte e cereali e poi… il nostro intestino si ribelli violentemente. Ecco, quello è il momento in cui il nostro corpo ha “deciso” di non volerne più sapere di latte e lattosio.

Lattosio e lattasi

Il lattosio è uno zucchero composto da glucosio e galattosio e, tanto per farsi un’idea, 250 ml di latte vaccino (un bicchiere) ne contengono 12,5 grammi. Se il latte viene fermentato a yogurt, ne rimane circa la metà perché questo zucchero viene utilizzato dai batteri per proliferare e produrre le sostanze organoletticamente tipiche dei prodotti caseari. Più è stagionato un formaggio e minore sarà il suo contenuto in lattosio. 

Nel nostro intestino il lattosio può essere assorbito nell’intestino tenue grazie alla presenza di un enzima chiamato lattasi. Questo scinde il lattosio nei suoi due componenti che solo così  vengono trasportati dentro alle cellule intestinali. Da qui diffondono verso i vasi sanguigni per essere utilizzati in tutto il corpo. Fino a che un giorno il gene che codifica per la lattasi non decide di spegnersi. Niente più (o pochissimo) enzima attivo = accumulo di lattosio nell’intestino.

Malassorbimento e intolleranza al lattosio

Sono due termini spesso confusi ma di fatto molto diversi: il malassorbimento è la condizione per cui il lattosio non può essere trasferito dall’intestino tenue alle cellule, pertanto si accumula e transita nell’intestino crasso. Intolleranza è invece un insieme di sintomi intestinali (gonfiore, dolore, flatulenza, diarrea) legati al malassorbimento. Se è vero che l’intolleranza dipende dal malassorbimento, non è vero il contrario: infatti non è detto che chi “malassorbe” sia anche intollerante, potrebbe bere il suo bicchiere di latte senza avere nessun problema. Perché? 

Lattosio e microbiota

Il lattosio indigerito transita fino al colon dove incontra il microbiota che non vede l’ora di cibarsene. Batteri diversi trattano il lattosio in modo diverso pertanto alcuni lo trasformeranno in acidi grassi a catena corta (benefici per l’intestino) mentre altri in metano, idrogeno o anidride carbonica. Di fatto la distensione addominale dovuta all’accumulo di tali gas è quella responsabile del dolore e della flatulenza. La diarrea di solito compare quando la fermentazione del lattosio è lenta pertanto lo zucchero richiama per osmosi molta acqua dalla parete intestinale e liquefa le feci. 

Di fatto un microbiota bilanciato è il salvagente ideale in caso di spegnimento della lattasi: non è un caso se normalmente chi ha una lattasi “pigra” selezioni nel proprio intestino molti Bifidobatteri. Probiotici naturali che utilizzano il lattosio e producono una gran quantità di acidi grassi a catena corta, i Bifidobatteri sono fondamentali come antinfiammatori, regolatori del metabolismo dei lipidi, immunostimolanti e modulatori dell’asse intestino-cervello. Chi ha un malassorbimento del lattosio solitamente ha un limite giornaliero variabile di 12-18 grammi prima di accusare sintomi dolorosi. Pertanto in questo caso si può sfruttare questa tolleranza per il proprio benessere microbiota-mediato.

Conclusioni

Non esistono terapie definitive per l’intolleranza al lattosio, solitamente la soluzione è limitare nella dieta alimenti che lo contengono. Questo permette anche di evitare eventuali esacerbazioni di condizioni infiammatorie, ove presenti, come nel caso di IBS o IBD (ne avevamo parlato qui). Tuttavia per gli amanti di latte e derivati, le terapie legate al microbiota potrebbero essere una buona alternativa all’assunzione di enzimi sintetici: probiotici a base di Bifidobatteri o prebiotici a base di galattooligosaccaridi (GOS) sono al vaglio per ripristinare un microbiota pro-lattosio. Ma prima, se siete curiosi di sapere se il vostro microbiota è anti- o pro-lattosio, potete sempre effettuare il test Microbioma Italiano EVO con la sua analisi fermentativa.

Alla prossima!

Eleonora Sattin, PhD
Responsabile Servizio Microbioma Italiano di BMR Genomics


Misselwitz B, Butter M, Verbeke K, et al. “Update on lactose malabsorption and intolerance: pathogenesis, diagnosis and clinical management”. Gut 2019;68:2080-2091.

WGO Practice Guideline – Diet and the Gut

IBD: circolo vizioso di infiammazione e disbiosi intestinale

Ho diversi conoscenti che soffrono di IBD e, stando alle loro descrizioni, questa condizione non è per nulla una passeggiata. Dolori, gonfiore addominale, malassorbimento, diarrea, sangue nelle feci, disagi ogni giorno. Ma cos’è l’IBD?

L’IBD, acronimo che sta per l’inglese Irritable Bowel Disease (Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali, MICI), definisce una serie di patologie che comprendono, tra le altre, anche il famoso Morbo di Crohn e la Rettocolite Ulcerosa. Sono tutte patologie intestinali che non hanno un’origine ancora ben chiara (si dice: malattie idiopatiche) ma quello che si sa è che le cause scatenanti siano diverse.

Cosa succede nell’intestino con IBD?

L’intestino che sviluppa IBD assomiglia ad un campo di battaglia. Le cellule del sistema immunitario tendono ad attaccare le pareti dell’intestino, causando infiammazione, rigonfiamento, nei casi più gravi emorragie e cancrena (il tessuto muore). Le IBD infatti sono anche considerate patologie autoimmuni in quanto il sistema immunitario tende ad attaccare un organo dello stesso corpo a cui appartiene. L’infiammazione è accompagnata, o preceduta, da un microambiente intestinale che favorisce la crescita di batteri patogeni e proinfiammatori che alimentano l’infiammazione stessa. E così via, in un circolo vizioso.

Quali sono le cause dell’IBD?

Primo su tutti una persona dev’essere predisposta geneticamente: ci sono più di 230 geni implicati nello scatenarsi della patologia e il 12% dei casi di IBD sono familiari e trasmissibili. Non a caso molti dei 230 geni coinvolti hanno a che vedere con funzioni disregolate della barriera intestinale e con le interazioni anomale ospite-microbiota, anche a livello di sistema immunitario.

Nondimeno, diversi fattori ambientali possono favorire l’insorgenza o l’aggravamento della patologia: alcol, fumo, farmaci come antinfiammatori non steroidei e contraccettivi orali, e soprattutto la dieta. Tutti questi fattori sono implicati nella rimodulazione della barriera intestinale, del microbiota e del sistema immunitario.

E il microbiota?

Non è un caso se tutti i pazienti con IBD mostrano un microbiota disbiotico. La notizia interessante è che il microbiota disequilibrato non è una mera conseguenza della situazione patologica ma ne è una vera e propria causa. Diversi studi hanno dimostrato questa tesi: ad esempio è stato rilevato che il trapianto fecale oppure l’utilizzo di probiotici e antibiotici aiutano nella remissione dei sintomi. Questo suggerisce che, quando il microbiota sta bene, anche la patologia tende a scomparire e viceversa.

Normalmente i soggetti con IBD mostrano un microbiota intestinale molto meno vario rispetto ai sani e un incremento di batteri proinfiammatori come le Enterobatteriacee, specialmente E. coli e il Fusobacterium. Parallelamente si assiste ad una diminuzione di batteri che producono una molecola molto importante per il benessere intestinale e immunitario: il butirrato. Batteri come Firmicutes, Bacteroidetes, Lactobacillus e Faecalibacterium prausnitzii infatti tendono a diminuire. Guardate il profilo del microbiota intestinale di un partecipante al Microbioma Italiano che soffre di IBD. Si nota chiaramente la disbiosi ed un’altissima presenza di Enterobatteriacee, di cui una parte è composta da E. coli.

Tabella dell’indice di disbiosi. Il valore rappresenta un livello elevato di disbiosi del microbiota del soggetto.

Grafico che rappresenta la percentuale di abbondanza di alcune famiglie batteriche. Si nota la grande presenza di Enterobacteriaceae (ultima riga).

Come si cura l’IBD?

Attualmente le cure si basano su farmaci che bloccano o attenuano la risposta immunitaria. Infatti il primo approccio contro l’infiammazione cerca di fermare le cellule immunitarie infiammatorie ed i loro segnali d’allarme. Ma basta? Purtroppo tali patologie richiedono cure che durano tutta la vita, con alti e bassi, momenti migliori e ricadute. Pertanto è necessario fare qualcosa in più. Ovvero, data la loro implicazione nell’insorgenza della patologia, lo stile di vita e soprattutto la dieta possono diventare utilissimi alleati dei farmaci.

Negli anni diversi gruppi di ricerca hanno testato svariati approcci di nutrizione funzionale, altresì diete che potessero aiutare i pazienti nel mantenimento della remissione dei sintomi dell’IBD.

Quali sono gli alimenti che favoriscono il benessere intestinale in caso di patologie infiammatorie croniche? Ci sono delle diete che effettivamente funzionano?

Di tutto questo parleremo nella prossima puntata.

A presto!

Eleonora Sattin, PhD
Responsabile servizio Microbioma Italiano di BMR Genomics


Inflammatory bowel disease and immunonutrition: noveltherapeutic approaches through modulation of diet and the gut microbiome

Nutrition, IBD and Gut Microbiota: A Review

Lievito di birra e benessere intestinale

C’è stato un momento in questi mesi di lockdown in cui nei supermercati non si riusciva più a trovare né farina né tantomeno il lievito. Il web è stato subito popolato da meme e post su “gli italiani, popolo di impastatori” in cui si prendeva in giro l’incredibile e riscoperta attitudine degli italiani alla produzione casalinga di pane, pizze, brioches, focacce e così via. Probabilmente è un’attitudine che conserviamo nel nostro DNA e che tiriamo fuori quando diventa necessaria ?.

Questa corsa alla panificazione mi ha fatto pensare a quel microrganismo fedele e fondamentale per la lievitazione che è il lievito di birra, ovvero Saccharomyces cerevisiae. Ne abbiamo mangiato a teglie intere ma… questo lievito ha qualcosa a che vedere con il nostro microbiota?

Partiamo dall’inizio 

Non se ne parla spesso ma il microbiota intestinale è un piccolo-grande ecosistema in cui non ci sono solo i famosi batteri. Il colon infatti è ricchissimo anche di altre forme viventi tra cui virus (che però non sono considerati “viventi” in senso stretto), protozoi e, per l’appunto, funghi e lieviti. Quest’ultima sezione del microbiota, chiamata micobiota [dal greco μύκης «fungo»; latino scient. myco-], è purtroppo meno studiata ma alcune informazioni si conoscono già.

Ad esempio si sa che, rispetto ai batteri, funghi e lieviti sono decisamente meno presenti e meno vari. Tuttavia tra persona e persona variano tanto quanto all’interno dello stesso soggetto in periodi diversi. Quindi se il microbioma batterico è una sorta di impronta digitale di una persona, il micobioma fungino no.

Guarda un po’ chi si rivede!

Abbiamo tre principali lieviti o funghi nell’intestino: Candida albicans, Malassezia restricta e, udite udite, Saccharomyces cerevisiae. Proprio lui ed è pure il più abbondante di tutti! Non solo: sembra che il nostro lievito di birra intestinale abbia un effetto antinfiammatorio e protettivo della barriera intestinale, a sostegno di quello della flora batterica.

In uno studio su pazienti con Morbo di Crohn alcuni ricercatori infatti hanno rilevato, oltre alla modifica del microbioma batterico, che S. cerevisiae tendeva ad essere meno abbondante rispetto al gruppo dei sani. Al contrario C. albicans era aumentata (come solitamente tende ad aumentare dopo un pasto ricco in carboidrati). 

Tuttavia la supplementazione* con S. cerevisiae ha apportato un beneficio ai pazienti promuovendo la produzione di molecole antinfiammatorie. Probabilmente, concludono gli autori dello studio, i soggetti con Morbo di Crohn, avendo una inferiore abbondanza di S. cerevisiae intestinale, sono meno protetti da un incremento dello stato infiammatorio tipico della patologia.

Un nuovo mondo ci aspetta

Non è ancora chiaro quanto il micobioma fungino sia influente sulla salute rispetto al microbioma batterico, che è più abbondante e unico. Tuttavia il fatto che si modifichi in caso di malattia e giovi in caso di supplementazione, fa ben sperare. In un certo senso quindi il lievito di birra sembra legato al benessere intestinale.

Sicuramente l’esplorazione del micobioma fungino è un ambito interessante e anche noi di Microbioma Italiano vogliamo iniziare a farlo. Ci vorrà ancora qualche tempo ma l’intenzione di adottare una tecnologia di sequenziamento del DNA accessibile a tutti e che ci permetta di avere l’immagine completa della flora intestinale c’è assolutamente e non ne vediamo l’ora!

Nel frattempo continuate a panificare e a voler bene a quel piccolo lievito sia nel forno che nella pancia.

Alla prossima!

Eleonora Sattin, PhD
Responsabile servizio Microbioma Italiano presso BMR Genomics

*con lievito vivo. Il lievito nel pane o nella birra purtroppo è morto e non può supplementare nulla, se non come nutriente per la flora residente


The gut mycobiome of the Human Microbiome Project healthy cohort

Remission in Crohn’s disease is accompanied by alterations in the gut microbiota and mucins production

Quando l’umore è una questione di pancia

In questo periodo di clausura forzata, bersagliato da una pioggia incessante di notizie più o meno angoscianti, il nostro organismo sta subendo uno stress psico-fisico molto forte. Si parla senza freni di quarantena, malati, guariti, tamponi, economia allo sfascio, medici eroici e politici allo sbando. Ci sentiamo prigionieri e tristi, impauriti e stressati.
E’ persino l’unico periodo in cui il termine “positivo” ha acquisito globalmente un’accezione a dir poco deprimente. E i casi di depressione o ansia puntualmente potrebbero aumentare, dicono gli esperti.
Tuttavia le buone notizie e le buone soluzioni si possono trovare anche in questo momento così critico: molte di esse si nascondono nella nostra mente, oltre che nel nostro intestino.

La fondamentale relazione tra intestino e cervello

Il nostro apparato digerente e la nostra mente comunicano costantemente in un’autostrada di segnali che viene definita asse intestino-cervello. Il suo funzionamento non è ancora del tutto chiaro ma è noto che i batteri intestinali producono moltissime molecole simili ad ormoni o neurotrasmettitori, ovvero i messaggi preferiti delle cellule del sistema nervoso. Queste molecole escono dall’intestino e, come tante e-mail, vengono ricevute dal sistema nervoso addossato all’intestino (enterico) che le legge e ne fa giungere la loro interpretazione anche al cervello. Di rimando il cervello tramite uno dei suoi famosi nervi, il nervo Vago, comunica con l’intestino ed i suoi batteri per modificare o confermare una data condizione. Anche il sistema immunitario sembra fondamentale in questa comunicazione poiché trasporta numerosi messaggi dall’intestino al cervello.

Mai avuto fenomeni intestinali (diarrea, gastrite) in concomitanza di eventi particolarmente stressanti, come esami, interrogazioni, esibizioni, …? Ecco, questo è un tipico esempio di comunicazione intestino-cervello.

Patologie mentali e microbiota

La relazione tra microbiota intestinale e cervello diventa ancora più profonda se si comincia a parlare di condizioni patologiche come depressione e ansia. E’ stato infatti rilevato un collegamento molto forte tra disbiosi, infiammazione e queste patologie mentali. Normalmente tali disturbi tendono a presentarsi in persone che hanno una costante alta presenza di segnali infiammatori in circolo. Questi segnali mantengono attivo un particolare circuito nervoso che coordina la risposta allo stress, il che è tipico della condizione di depressione e ansia patologiche. Un po’ come accade quando si aggiunge continuamente legna sul fuoco: sarà difficile che il falò si spenga, anzi potrebbe anche divampare.

Per chi ormai ha familiarità con i batteri intestinali sa che, quando il microbiota non è in equilibrio, l’intero organismo ne può risentire. Alcuni batteri più di altri, come ad esempio le Enterobacteriaceae, sono presenti normalmente in scarsa abbondanza ma se aumentassero vistosamente sarebbero più inclini a generare uno stato infiammatorio. La continua sollecitazione dei tessuti intestinali con molecole infiammatorie può arrivare a danneggiare il tessuto stesso: l’infiammazione, da piccolo falò concentrato nell’intestino, può divampare a tutto l’organismo. Non è un caso se la presenza di infezioni intestinali sia spesso concomitante con l’insorgenza di patologie come l’ansia.

La dieta per il benessere mentale

Noi mediterranei siamo fortunati: la nostra dieta ha un altissimo potere antinfiammatorio e antiossidante (vedi articolo precedente). Probabilmente non è un caso se i paesi maggiormente colpiti da patologie come depressione e ansia sono quelli che non seguono una dieta come la nostra. La tipica assunzione di fibre, grani, alimenti fermentati, pesce e la scarsa necessità di carni rosse e zuccheri raffinati ci rende meno propensi a sviluppare patologie infiammatorie sistemiche come diabete, malattie cardiache e, nondimeno, ansia e depressione. Il seguente schema suggerisce quali alimenti della dieta mediterranea sono indicati in tal senso.

Alimenti consigliati per una salute mentale ottimale.

Le fibre, immancabili, hanno un altissimo valore prebiotico, ovvero fungono da carburante per la crescita di batteri benefici come i Bifidobatteri. Questi particolari batteri hanno una forte attività antinfiammatoria e mostrano inoltre una comprovata attività benefica per la mente, antistress e antidepressiva. Signori e signore siamo di fronte ai cosiddetti psicobiotici, ovvero batteri che hanno una valenza terapeutica in casi di patologie mentali. Ma di questi ne parleremo più avanti.

Oltre alle fibre, l’assunzione di pesce come tonno, sardine, salmone, è fondamentale per un’attività mentale in salute, come rilevato in moltissimi studi di correlazione. Il componente d’interesse è l’omega-3, e principalmente l’EPA (acido eicosapentaenoico), un acido grasso presente nell’olio di pesce che sopprime la risposta immunitaria infiammatoria. 

Morale della favola

Ancora una volta la relazione tra dieta, microbiota e salute viene sottolineata anche in campi inaspettati come la salute psichica. Detto ciò, a maggior ragione in questo periodo, vogliamoci bene: facciamo una buona spesa al supermercato e diamo una mano al nostro microbiota per mantenerci in salute e felici. O per lo meno positivi. Ma nel senso migliore del termine.

Alla prossima puntata dove approfondiremo quali alimenti preferire per un buon benessere psico-fisico.

Eleonora Sattin, PhD
Responsabile servizio Microbioma Italiano BMR Genomics


Dinan TG et al., Feeding melancholic microbes: MyNewGut recommendations on diet and mood, Clinical Nutrition.

Super vitamina C e super microbiota

Il mio professore di chimica inorganica del primo anno di università era un signore anziano ma pieno di vita e di storielle interessanti. Una delle sue preferite era quella sulla vitamina C, ovvero, secondo lui, una panacea per tutti i mali: raffreddore, influenza, stanchezza, mal di pancia e chi più ne ha più ne metta. Raccontava che a casa ne aveva scorte illimitate e ne assumeva ogni giorno. A noi studenti sembrava un’esagerazione ma a guardare la sua vitalità, lo era veramente?

Cos’è la vitamina C?

La vitamina C, o acido ascorbico, è un composto che nel nostro organismo svolge una moltitudine di funzioni importanti ma che dobbiamo assumere con l’alimentazione poiché non siamo in grado di produrlo. Possiamo trovarlo in molti alimenti freschi come arance, fragole, mandarini, kiwi, limoni, spinaci, broccoli, pomodori e peperoni. Purtroppo essendo sensibile al calore, tende a degradarsi in fase di cottura, pertanto gli alimenti che lo contengono andrebbero consumati crudi o poco cotti. 

Vitamina C come antiossidante

Perché dovrebbe interessarci così tanto? In questo periodo di influenze e raffreddori l’associazione mentale con la Vitamina C viene quasi spontanea, in quanto è molto nota la sua attività antiossidante e stimolante del sistema immunitario. Normalmente la vitamina C funge da sentinella che imprigiona molecole reattive come i famosi radicali dell’ossigeno che aumentano la quantità di ossigeno in aree dove non dovrebbe essere molto concentrato. Se i radicali sono liberi e felici provocano reazioni a catena che destabilizzano le strutture biologiche, come le pareti cellulari, le proteine, i grassi e così via. L’acido ascorbico li ammanetta prima che combinino guai: in questo modo riesce a mantenere un livello di ossidazione dei tessuti molto basso e previene la loro degradazione. Questo è il tipico lavoro di un antiossidante.

Fin qui tutto bene, ma non è l’unico composto che ha queste abilità. Quindi? Fino a qualche anno fa i ricercatori hanno studiato la Vitamina C senza considerare la sua interazione con uno dei tessuti intestinali più attivi, ovvero il microbiota. Di conseguenza è da poco tempo che abbiamo cominciato a capire le profonde potenzialità di questo composto nei confronti del nostro intestino.

Perchè gli antiossidanti nell’intestino?

Condizioni di infiammazione intestinale e disbiosi sono spesso accompagnate da uno stato di ossidazione sbilanciato. In questi casi il microbiota stesso produce molecole che favoriscono l’infiammazione che a sua volta induce le cellule intestinali a emettere segnali che aumentano il livello di ossidazione del tessuto. Un circolo vizioso che a lungo andare può indebolire la barriera intestinale e può portare l’infiammazione a tutto l’organismo, condizione che viene definita malattia metabolica. La condizione di barriera debole (leaky gut) infatti permette alle molecole dannose di spostarsi dal lume intestinale all’intero organismo, scatenando una reazione infiammatoria che da localizzata può diventare anche sistemica. Una barriera intestinale poco solida è infatti un elemento che hanno in comune moltissime patologie che interessano l’intero organismo come diabete, malattie autoimmuni, obesità, etc. 

Le potenzialità inattese della vitamina C

Alcuni ricercatori hanno studiato gli effetti della supplementazione della Vitamina C in modelli di disbiosi intestinale e scarsa attività anti-ossidante e hanno notato che la quantità di ossigeno nel tessuto e il rapporto tra batteri patogeni e benefici miglioravano. Questi effetti positivi erano accompagnati anche da una ricostituzione della funzionalità della barriera intestinale e addirittura da una riduzione dell’infiammazione sistemica. In altri campi, alcuni studi hanno evidenziato inoltre che la vitamina C iniettata in vena quasi dimezza la mortalità nei casi di risposta esagerata e dannosa dell’organismo ad un’infezione (condizione definita sepsi). Questo avviene perché la vitamina C attenua lo stress ossidativo ed immunologico, migliora la risposta dei vasi sanguigni, modula le cellule immunitarie.

Nutrirsi bene, antiossidarsi meglio

Insomma, era noto che la vitamina C possedesse molteplici proprietà benefiche ma non l’avremmo mai detto che potesse essere così importante anche per il nostro intestino oltre che per l’intero organismo. E stiamo parlando solo di una delle migliaia di molecole contenute negli alimenti: quante altre proprietà hanno i diversi macro/micronutrienti che assumiamo con il cibo? Di conseguenza quanto è importante che gli alimenti che mangiamo contengano tutte queste molecole benefiche? In casi di carenza si può ricorrere agli integratori ma normalmente se la nostra alimentazione è ricca in cibi freschi, bilanciata e variegata, possiamo fornire al nostro intestino tutto il potere antiossidante che gli serve. La nozione interessante e innovativa che emerge è che in casi di patologie particolari, un’integrazione controllata di vitamina C potrebbe rivelarsi profondamente utile.

Probabilmente il mio professore di chimica era un po’ esagerato a concentrarsi solo su un tipo di nutriente ma sui benefici della vitamina C sicuramente ci aveva visto lungo.

Alla prossima!

Eleonora Sattin, PhD


The relationship between vitamin C status, the gut-liver axis, and metabolic syndrome

The Emerging Role of Vitamin C as a Treatment for Sepsis

FODMAPs, croce e delizia del nostro intestino

Cosa sono i FODMAPs? Si trovano anche in altri alimenti oltre che nei cereali?

Nell’ultimo post del nostro blog ci eravamo lasciati con queste domande. Proviamo dunque a dare una risposta e scoprire cosa si cela dietro a questo termine così difficile.

FODMAPs è una sigla che sta per Fermentable Oligosaccharides, Disaccharides, Monosaccharides And Polyols ovvero Oligosaccaridi, Disaccaridi, Monosaccaridi Fermentabili e Polioli e indica una serie di carboidrati (zuccheri) fermentabili che per il nostro intestino, o meglio per i batteri che in esso hanno trovato la loro “casa”, sono una vera e proprio delizia.

I FODMAPs infatti sono dei prebiotici, sostanze contenute naturalmente in alcuni alimenti e che sono assorbite molto lentamente o non vengono digerite nell’intestino tenue ma, una volta arrivate nel colon, incontrano i nostri batteri, ben felici di cibarsene. In questo modo i FODMAPs favoriscono la crescita di batteri benefici per l’organismo.

Questi composti includono cinque principali sotto-gruppi di carboidrati, contenuti in diverse tipologie di alimenti:

  • Gli Oligosaccaridi FOS (Fructo-oligosaccaridi, Fruttani) e GOS (Galatto-oligosaccaridi) contenuti nei cereali come il grano, l’orzo e la segale (alimenti che contengono anche glutine), nei legumi, nell’aglio e nella cipolla, nei pistacchi, nel latte di soia, nelle verdure come carciofi, asparagi, broccoli, finocchi, peperoni, cicoria e bietola.
  • Il Disaccaride lattosio, contenuto nel latte e nei prodotti caseari.
  • Il Monosaccaride fruttosio, in eccesso rispetto al glucosio, presente nel miele e in diverse tipologie di frutta come mango, mela, pera, cocomero, ciliegie, albicocche, pesche, datteri e fichi.
  • I Poli-oli sorbitolo, mannitolo, xilitolo e maltitolo, presenti principalmente nell’avocado, nei funghi, nelle albicocche, nelle ciliegie, nei cavolfiori, ma utilizzati spesso come dolcificanti negli alimenti industriali.

Molti di questi alimenti sono ottime fonti di fibre vegetali, note per accelerare il transito intestinale e per i benefici che apportano all’organismo. Fin qui tutto bene, se non fosse che, per determinate persone, alcune tipologie di FODMAPs, e quindi gli alimenti che li contengono, possono risultare particolarmente fastidiosi.
Avete mai avuto problemi con uno o più degli alimenti sopra elencati? Cominciate a farci caso.

Ma perché dei piccoli e comuni carboidrati, per di più presenti in natura in svariati alimenti, dovrebbero causare a determinate persone problemi intestinali? Non avevamo detto che i FODMAPs promuovono la crescita di svariate specie batteriche e quindi la salute e il benessere del nostro intestino?

Vi aspetto con il prossimo articolo per scoprirlo insieme!

Io intanto mi gusto una buonissima arancia siciliana di stagione, ricca di vitamina C e a basso contenuto di FODMAPs.

Ilena Li Mura, PhD


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